Il sotto livello
«Delitto passionale» Ma era un depistaggio
Il delitto Tumino, cold case di Ragusa: il testimone dell’82 accusato da un anonimo nel 2008, ma l’indagine fu archiviata
«Oggetto: Omicidio Ing. Angelo Tumino, avvenuto nelle campagne ragusane, all’inizio degli anni Settanta. Archiviato dal tribunale di Ragusa con la scritta di non luogo a procedere perché consumato da mani ignote. Cari Signori in indirizzo, così non è stato, perché il povero Ingegnere Angelo Tumino è stato massacrato da certo BARTOLO DELL’ALBANI, motivo del delitto: GELOSIA». Quando la mattina del 9 gennaio 2009 l’ex sindaco di Ragusa, Giorgio Chessari, storico dirigente del partito comunista, amico di lungo corso di Giovanni Spampinato, lesse queste prime quattro righe, rimase qualche secondo a fissare quel figlio di carta che teneva tra le mani e che qualcuno gli aveva fatto trovare sotto la porta d’ingresso del suo Centro Studi Feliciano Rossitto a Ragusa. Capì che si trattava dell’ennesima lettera anonima, l’ultima in ordine cronologico, scritta sui delitti Tumino e Spampinato. La lesse tutta d’un fiato e decise di portala in Procura a Ragusa che aprì un fascicolo. Anche quest’altra vicenda giudiziaria, archiviata molti anni fa, mai raccontata, potrebbe avere riflessi sulle nuove indagini della Procura di Ragusa sul delitto Tumino. E anche stavolta riteniamo giusto raccontarla, con approccio storico, per una più completa ricostruzione del complesso scenario, non solo giudiziario, che seguì negli anni dopo idelitti di Angelo Tumino e Giovanni Spampinato. Dall’incipit di questa lettera anonima scopriamo che a uccidere Tumino sarebbe stato proprio quell’oscuro testimone che nel 1982 era andato in Procura ad accusare dello stesso delitto un’altra persona, l’ex imprenditore ragusano Ernesto Di Marco, amico del Tumino, sentito nelle indagini del ’72 come testimone. Quella lettera indirizzata all’allora presidente del Tribunale ,Michele Duchi, al procuratore capo Agostino Fera (il pm che nel ’72 aveva iniziato le indagini sul delitto Tumino) e al fratello di Angelo Tumino a Ragusa circolava già da qualche mese. Una copia era stata lasciata anche sulla tomba di Giovanni Spampinato nel cimitero di Ibla. La lettera viene spedita in un momento particolare: un anno dopo la morte di Roberto Campria che portò con sé più di un segreto su quella vicenda, mentre a Ragusa c’è l’avvicendamento del procuratore. L’ex capo della Procura Agostino Fera va a ricoprire il posto di presidente del Tribunale dei minori a Catania. Al suo posto subentra Carmelo Petralia. Quella lettera (con frasi calunniose che non troveranno mai alcun riscontro nei fatti descritti) parla di Bartolo Dell’Albani come «un gran delinquente» che «ha sempre fatto del male agli altri». E poi entra nel vivo del caso Tumino.
Racconta che l’ingegnere avrebbe insidiato la donna di Dell’Albani che per questo avrebbe deciso di eliminarlo portandolo in contrada “Ciarberi” dove venne trovato il cadavere, con la scusa di cercare delle monete antiche nascoste sotto un cumulo di pietre. «Quando Tumino si abbassò per cercare le monete Dell’Albani lo colpì alla nuca con una grossa pietra, il povero ingegnere stramazzò a terra, Dell’Albani lo spostò un po’ e gli sparò un colpo di pistola in fronte, uccidendolo sul colpo». L’omicidio viene descritto con dovizia di particolari. Dopo averlo ucciso Dell’Albani «prese la macchina del povero ingegnere, fece un po’ di marcia indietro e appena trovò spazio girò la macchina e tornò a Ragusa. Era notte fonda e lasciò la macchina nei pressi nella propria abitazione dove poi fu trovata». E ancora «poiché aveva piovuto l’acqua cancellò ogni traccia, addirittura pare che non sia stato trovato neanche il proiettile, si è pensato che fosse stato ucciso altrove e poi portato in quella contrada, così non è stato, il proiettile si è conficcato nella terra molto bagnata ed è sceso parecchio in profondità, ecco perché non fu trovato». «Questi sono i fatti», scrisse l’anonimo parlando di un segreto che gli avrebbe raccontato sua nonna ma che la sua coscienza non poteva più nascondere. «Peccato – scrisse – che ora non si può fare più niente perché sono tutti morti, tra cui Dell’Albani, e che in questa brutta storia – specificò – ci sono state tante vittime tra cui Giovanni Spampinato e lo stesso Roberto Campria che si è visto accusato d’un delitto che non aveva commesso». Cos’era quella lettera? La verità dei fatti, il delirio di un mitomane o il tentativo di un depistaggio? Il procuratore capo uscente Fera delegò le indagini al commissario della squadra mobile Marcello Ribera che per prima cosa accertò, come riferiva l’anonimo, che Dell’Albani era ormai deceduto nel ’92 e che in effetti la macchina di Tumino venne trovata nelle vicinanze della casa dove Dell’Albani abitava quando fu ucciso l’ingegnere. Il commissario, studiando il fascicolo Tumino, scoprì, come in un gioco di scatole cinesi, i verbali dell’82 e le indagini a carico di Ernesto Di Marco che stavolta, insieme ad altre persone, fu interrogato e potè dare la sua versione dei fatti, soprattutto sul suo rapporto con Dell’Albani che molti anni prima lo aveva coinvolto nel delitto Tumino. Di Marco disse che aveva conosciuto Dell’Albani al quale aveva venduto un’auto simile a quella di Tumino ma che tra i due era nato un contrasto perché il rappresentante aveva smesso di pagare le rate. Il rivenditore d’auto si sarebbe allora riservato di procedere con un’azione legale e Dell’Albani lo avrebbe minacciato di fargli saltare in aria la concessionaria se avesse insistito nel recupero quei soldi. «Poiché sapevo che era un tipo pericolo -disse Di Marco – lasciai perdere rimettendoci di tasca mia i soldi dell’auto». Di Marco mise anche a verbale che quando subì la perquisizione dell’82 gli fu detto dagli inquirenti di allora che si stava procedendo per un esposto anonimo che lo accusava di una sottrazione di energia elettrica attraverso la manomissione dei contatori della sua casa a Ragusa, di quella in campagna e della concessionaria. Chiarì anche di essere stato a lungo amico dell’ingegnere Tumino e per quanto riguardava la sua passione degli oggetti antichi specificò di non essere così appassionato come il suo amico ucciso. Ribbera annotò nel suo rapporto che su Di Marco e Dell’Albani c’era stata una questione che aveva irritato Bartolo e che Di Marco sembrava non aver mai saputo i veri motivi che portarono i carabinieri ad effettuare una perquisizione presso la sua casa, e cioè perché era sospettato dell’omicidio Tumino. Furono quindi sentite altre persone tra cui il maresciallo Graziano che nell’82 aveva svolto l’indagine con Fontana. «Mi limitai solo a fornirgli supporto logistico, l’indagine la fece solo Fontana», disse Graziano. Ribbera quindi concluderà che non emerse alcun indizio che potesse attribuire a Dell’Albani l’omicidio di Angelo Tumino. Né sono stati trovati altri elementi che possano portare ad altre piste da seguire. L’anno dopo il procuratore capo Carmelo Petralia subentrato a Fera chiederà l’archiviazione.
C’è però un dettaglio importante nei verbali del 2009. Il commissario Ribbera ebbe l’intuito di indagare anche tra le dicerie della gente e intercettò il posto più adatto dove cercare: il bar del centro di Ragusa Ibla, crocevia di molti cittadini che avevano conosciuto Dell’Albani. Ribbera decide di sentire il gestore del bar, Giovanni Caruso, che mise a verbale un tema interessante: disse che la pista passionale che vedeva in Dell’Albani l’autore dell’omicidio Tumino nel suo bar iniziò a circolare a metà degli anni 90, qualche anno dopo la morte di Bartolo e che tra le tante dicerie sull’argomento prevalse quella che la notizia fosse stata divulgata da padre Giuseppe Cultrera, all’epoca parroco della Chiesa di San Giorgio. Si diceva che il sacerdote avesse raccolto l’indiscrezione nel corso di una confessione da parte di un parrocchiano. Padre Cultrera è il sacerdote che nel ’73 fu condannato per omicidio colposo sulla misteriosa morte del restauratore Salvatore Guarino, professionista di fiducia di Angelo Tumino, sentito anche come teste nel ’72, morto folgorato il 6 gennaio del 1973, 11 mesi dopo il delitto Tumino, mentre riparava l’impianto elettrico del campanile di San Giorgio a Ibla.
Una tragica fatalità si disse di quell’incidente ma per tanti si trattò di una morte sospetta. Guarino aveva paura di essere ucciso.
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