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I traffici di reperti e l’indagine segreta

Esclusivo: sull’omicidio dell’ingegnere appassionato d’arte l’indagine del 1982 senza esito. 5 anni di investigazioni senza sentire il sospettato

Di Carmelo Schininà |

«Ho sentito dire che Angelo Tumino il pomeriggio del giorno in cui venne ucciso fu visto uscire di casa con un fagotto avvolto in un giornale e siccome fuori pioveva, salendo in macchina lo coprì con la sua giacca. Preciso che si trattava di un oggetto alto circa 40 cm a forma piramidale».

25 gennaio 1982, ore 17,30. Tribunale di Ragusa. In una stanza della polizia giudiziaria a raccontare con tale dovizia di particolari, come si fosse trovato davanti a quella scena, è tale Bartolo Dell’Albani, 52 anni, ragusano di Ibla, rappresentante di una azienda casearia. Si tratta di una vicenda giudiziaria archiviata molti anni fa, mai raccontata, ma che potrebbe avere riflessi sulle nuove indagini della Procura di Ragusa sul delitto Tumino. La raccontiamo proprio per una più completa ricostruzione storica dell’intricato scenario, non solo giudiziario, che seguì negli anni dopo i delitti Tumino e Spampinato. Dell’Albani è un testimone che si affaccia solo adesso sul caso Tumino (e perché non prima?) mai lambito dall’inchiesta del 1972. Davanti a lui, dall’altro capo della scrivania, c’è il maresciallo Giovanni Fontana, capo della polizia giudiziaria della Procura di Modica. Per la deposizione di Dell’Albani si è appoggiato negli uffici del maresciallo Vincenzo Graziano che assiste in silenzio all’interrogatorio. Fontana è stato chiamato dal Procuratore di Ragusa Paolo Frasca che vorrebbe riaprire le indagini sul caso Tumino. Fallite quelle affidate dieci anni prima al maresciallo dei carabinieri Francesco Leone (e forse sondato il muro di gomma della polizia giudiziaria di Ragusa) il procuratore vuole ora riprovarci con Fontana del distretto di Modica.

Chi sono Fontana e Dell’Albani? Il primo è un investigatore di razza, in quello stesso anno si occuperà della misteriosa morte di Elisabetta Ciabani avvenuta a Sampieri. Arrestato a Siracusa nel 2001 con l’accusa essere il mandante di un omicidio avvenuto nell’85 a Noto, nel corso della perquisizione verrà trovato in possesso illegale di armi. Morirà nel 2003 durante l’inchiesta che lo aveva travolto. Dell’Albani, originario di Ragusa Ibla, fa il rappresentante di formaggi. Si era fatto vedere nella giovane Italia nel Msi, ha qualche precedente: appropriazione indebita, minacce, lesioni e porto abusivo d’arma da fuoco. Questa che raccontiamo per la prima volta è la storia del fascicolo più misterioso e controverso sull’omicidio dell’ingegnere Tumino. L’indagine che su quei fatti disse tutto e non disse niente perché alla fine verrà archiviata per insufficienza di prove. Quel pomeriggio di gennaio Dell’Albani racconta di essere stato intimo amico dell’ingegnere al punto che quando fu commesso l’omicidio rimase molto stupito del fatto che nessuno degli inquirenti lo avesse sentito. Inizia subito a tracciare una sorta di cerchio magico intorno a Tumino. Dice che intimi amici dell’ingegnere ucciso, erano, oltre a lui, anche Roberto Campria, Salvatore Guarino ed Ernesto Di Marco. Tre persone che dieci anni prima furono sentite dalla Procura. Dai verbali del ’72 emerge anche che Roberto Campria, il giorno dopo che l’ingegnere non era tornato a casa, si trovava a casa di Tumino con un certo Giuseppe Algeri. E qui ricevette due telefonate: una era della sorella di Tumino che lo aveva informato fosse accaduto qualcosa e l’al tra era proprio di Ernesto Di Marco, il concessionario che aveva venduto all’ingegnere la Nsu Prinz che poi sarà ri-trovata dopo il delitto. Anche Di Marco mise a verbale di aver telefonato all’in -gegnere quel giorno per metterlo in contatto con persone di Catania interessate all’acquisto di oggetti d’arte e che in effetti gli aveva risposto una voce sconosciuta che poi avrebbe saputo essere quella di Roberto Campria. Salvatore Guarino invece era il restauratore di Ibla che spesso aveva lavorato ai reperti di Tumino, morto il 6 gennaio del 73 (tre mesi dopo l’omicidio Spampinato per mano di Campria, 11 dopo quello dell’ingegnere) in uno strano incidente di lavoro: folgorato mentre riparava l’impianto elettrico delle campane del Duomo di San Giorgio a Ibla. Da quella vicenda ne scaturì un processo per omicidio colposo a carico del parroco di San Giorgio, padre Giuseppe Cultrera.

Ma torniamo alle dichiarazioni di Dell’Albani. A ogni domanda di Fontana, il teste risponde istillando goccia a goccia sospetti sulla figura di Ernesto Di Marco, l’unico – dice – capace di guidare la Nsu Prinz di Tumino priva del filo della frizione. Fornisce anche un movente: l’omicidio sarebbe nato dopo il ritrovamento di un pezzo archeologico di grosso valore e da un litigio scaturito tra Tumino, Campria e Di Marco per la divisione del ricavato. Bartolo parlò genericamente di un reperto di circa 35 cm che valeva tra gli 80 e i 100 milioni di allora. «Il fatto – specificò – era noto solo a Tumino, Campria e Guarino». Il casearo escluse che Roberto Campria fosse dedito a scavi clandestini, interesse invece coltivato dal concessionario il quale, specificò, dopo la morte di Tumino, si arricchì in modo sproporzionato rispetto alle sue reali possibilità economiche. Come e da chi seppe queste cose Dell’Albani non lo disse, trincerandosi dietro diversi «ho sentito dire che…», «all’epoca si parlò di…». Stesse modalità che utilizzò per coinvolgere Di Marco anche nella morte di Guarino. Prima riferì quello che negli ambienti di Ibla si mormorava da tempo, e cioè che il restauratore, professionista di fiducia di Tumino, conosceva troppo bene quell’impianto elettrico per poterci restare secco. E che la cosa più plausibile fosse che mentre Guarino in cima al campanile era intento ad aggiustare quei fili, qualcuno da giù azionò l’interruttore della luce che lo uccise folgorandolo. Infine aggiunse di aver saputo che Di Marco, come Guarino, era in possesso delle chiavi della cattedrale di San Giorgio. Dopo aver gettato ombre anche su quella morte, Dell’Albani si congedò non prima di ricordare agli uditori che i suoi rapporti con Di Marco erano sempre stati cordiali e amichevoli ma nonostante questo ebbe la netta impressione che l’interesse del concessionario d’auto verso la morte di Tumino era diverso dal suo affetto verso l’amico scomparso. Erano le farneticazioni di un mitomane? Calunnie per colpire qualcuno? Bugie infarcite di mezze verità o qualcosa di più? I due marescialli forse per un attimo credettero di essere a un passo dal risolvere il caso, di aver in mano il testimone chiave. Servivano solo i riscontri. Passò più di un anno. Poi il 16 febbraio dell’83 Fontana sgancia la bomba. Nel corso delle indagini sulle dichiarazioni di Dell’Albani, scrive il maresciallo al procuratore Frasca, è emerso che Ernesto Di Marco, dedito a scavi archeologici clandestini e trafficante di oggetti d’arte, era socio di Tumino in questo commercio illecito. Ma Fontana non scrive come né da chi lo ha saputo. Mette a verbale che l’omicidio dell’ingegnere è scaturito da un grosso giro di danaro illegale nato dalla ricerca, ricettazione rivendita di materiale archeologico e in particolare di un cratere di origine greca a suo tempo valutato oltre 100 milioni di lire, venduto in America a un ente in corso di identificazione la cui trattativa venne curata proprio da Di Marco. Accuse pesantissime. Sulla base di cosa le sostiene? Il maresciallo riesce comunque a farsi autorizzare dal procuratore una perquisizione a Di Marco e a fargli mettere il telefono sotto controllo per 5 giorni.

Del sospettato vengono così perquisiti l’appartamento di Ragusa, la concessionaria e la casa in campagna. Vengono sequestrate anche due agende: una telefonica con 19 appunti vari ritenuti “utili alle indagini” e una datata 1973 del Banco di Sicilia. Le intercettazioni però durano solo due giorni. Poi vengono sospese perché Di Marco risulta essersi recato nella casa di villeggiatura. Passa un altro anno di silenzio investigativo. Il 9 gennaio dell’85 Fontana comunica a Frasca che le indagini sulle dichiarazioni di Dell’Albani hanno dato esito negativo. Non fu trovata nessuna prova a carico dell’indiziato. L’inchiesta finisce in un nulla di fatto. Nessuno però pensò di interrogare Di Marco, né di sentire Roberto Campria che in quegli anni stava finendo di scontare la pena per l’omicidio di Giovanni Spampinato a Barcellona Pozzo Gotto, né si seppe mai quale fosse quell’ente pubblico (un museo?) in via di identificazione che avrebbe acquistato il cratere. Prima di chiedere l’archiviazione però il procuratore Frasca chiese il fascicolo a carico di quello che per i magistrati ragusani era sicuramente coinvolto nel delitto Tumino. Quel Giovanni Cutrone, finito nel processo per falsa testimonianza con Campria, morto da qualche anno. Forse Frasca cercò di verificare se tra quelle carte e le dichiarazioni di Dell’Albani potessero esserci riscontri.

L’anno dopo, il 3 gennaio dell’87 il giudice istruttore archiviò l’indagine scrivendo che non si riuscì ad aprire il caso Tumino per insufficienza di prove. Quei verbali però oggi sarebbero una costola della nuova indagine a Ragusa del pubblico ministero Santo Fornasier che alla fine del 2019 ha riaperto il fascicolo sul delitto Tumino. Tra le tante persone sentite nel corso dell’inchiesta di 50 anni fa, c’è anche Di Marco, oggi 83enne. Nel nuovo fascicolo ci sarebbe anche la deposizione di un testimone d’eccezione: il noto fotografo del barocco ragusano Giuseppe Leone il quale avrebbe raccontato che nel febbraio del ’72, pochi giorni prima di morire, Angelo Tumino gli aveva mostrato proprio un cratere greco. Chiusa l’indagine dell’82, Bartolo Dell’Albani morirà, 10 anni dopo, nel 1992. L’inchiesta fu archiviata senza mai conoscere la versione di Ernesto Di Marco che su quei fatti però avrà occasione di dire la sua solo 17 anni dopo, nel 2009. Succede quando la Procura a Ragusa apre un fascicolo su quella che sarà l’ultima lettera anonima, in ordine di tempo, scritta sui delitti Tumino e Spampinato. Una lettera che inizia col nome di chi avrebbe ucciso Angelo Tumino.

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