«In merito al caso Tumino-Campria-Spampinato la informo che pochi giorni prima della morte dell’ingegnere erano stati emessi, da persona molto facoltosa di Ragusa, alcuni assegni del banco di Sicilia intestati a Roberto Campria e da questi girati all’ingegnere Tumino, il quale non fu in grado di incassarli perché barbaramente e premeditatamente ucciso. Detti assegni ammontanti ad alcune decine di milioni per oggetti di antiquariato consegnati dal Tumino a questa terza persona tramite il Campria non sono mai stati ritrovati. Per tanto il nocciolo della matassa sta nel trovare il terzo uomo. Per il trionfo della giustizia che in questi ultimi anni è stata amministrata a Ragusa in modo tanto subdolo e privatistico». Nel gennaio del 1973 una lettera anonima, scritta a penna su tre fogli di quaderno a righe era stata spedita in Tribunale a Catania, nell’ufficio del procuratore generale Salvatore Spataro, del tutto estraneo alle indagini sull’omicidio dell’ingegnere. Si tratta di un’altra lettera anonima che, a 50 anni dai fatti, pubblichiamo per la prima volta, scritta (come sintetizza lo stesso anonimo) sul caso Tumino-Campria-Spampinato. L’omicidio dell’ingegnere Angelo Tumino, trafficante di oggetti d’arte, ucciso da mano ignota il 25 febbraio del ’72. Vicenda sulla quale aveva scritto il corrispondente de “L’Ora” Giovanni Spampinato mentre lavorava a un’inchiesta sui contatti tra neofascisti e contrabbandieri nelle coste siciliane, ucciso il 27 ottobre del ’72 dall’allora figlio del presidente del Tribunale ibleo, Roberto Campria, che il giornalista sospettava fosse implicato nell’ omicidio Tumino. Dopo aver letto con attenzione quell’anonimo, il procuratore Spataro lo imbustò e lo inviò correttamente al giudice di Ragusa Angelo Ventura che da cinque mesi stava istruendo il fascicolo sull’omicidio dell’ingegnere. A quasi un anno dall’uccisione di Angelo Tumino, gli inquirenti brancolavano nel buio.
L’autore di questa lettera volle fornire alcuni indizi. Scrisse che una persona X a Ragusa avrebbe intestato degli assegni per alcuni milioni di lire a Roberto Campria e che questi girò a Tumino per l’acquisto di oggetti d’arte. Dopo averli ricevuti ma non incassati, perché «barbaramente ucciso», l’ingegnere avrebbe quindi consegnato gli oggetti in questione tramite Roberto Campria alla persona X. L’anonimo fornì anche un’altra X, quella in cui scavare: il Banco di Sicilia di Ragusa.
Chi era il “terzo uomo”? Vennero mai fatte verifiche sul Banco di Sicilia? Dai fascicoli di allora non emerge alcuna indagine sul contenuto di questa lettera. L’anonimo arriva al giudice Ventura mentre, cercando di chiudere il cerchio sull’omicidio Tumino, stava istruendo anche il fascicolo per falsa testimonianza a carico di Roberto Campria che, da quasi tre mesi, è in carcere per l’omicidio Spampinato. Ventura è convinto che il giovane nasconda un segreto, qualcosa che portato alla luce potrebbe essere la chiave del delitto Tumino. Risultava infatti che l’ingegnere era uscito di casa nel pomeriggio del 25 febbraio, giorno in cui sarà ucciso, in compagnia di due persone. In una di queste, la testimone Elisa Ilea, aveva riconosciuto proprio Roberto Campria che invece negava la circostanza, asserendo di aver visto l’ultima volta Angelo Tumino la domenica, cinque giorni prima che venisse ucciso. L’altra persona in compagnia dell’ingegnere fu invece identificata dai carabinieri in Giovanni Cutrone, un pregiudicato originario di Chiaramonte Gulfi, vicino all’Msi, sul quale già pendeva un’accusa per omicidio, trafficante di oggetti d’arte che da qualche tempo aveva intrallazzi con Tumino e che nel periodo a cavallo tra il delitto dell’ingegnere e quello del giornalista alloggiava a Ragusa casa della sua amica Vita Brullo che, ironia della sorte (o forse no), abitava a pochi metri di distanza da una sorta di monolocale che Campria aveva preso in affitto dove teneva la sua barca. Convinto che anche Cutrone mentisse negando di essere uscito con Tumino quel 25 febbraio, a marzo del ’73 Ventura lo fa arrestare a Modena e portare nel carcere di Ragusa dove, dopo averla interrogata, fa rinchiudere anche la sua amica. Secondo il giudice anche lei non dice la verità per coprire il pregiudicato. Campria e Cutrone, negarono sempre di conoscersi e mai si presenteranno al processo per falsa testimonianza che li condannerà in primo e secondo grado ma sarà annullato dalla Cassazione.
Non sapremo mai se Ventura cercò un nesso tra il contenuto dell’anonimo e quello del fascicolo per falsa testimonianza o se ritenne l’anonimo una pista non percorribile. Se ipotizzò quindi che quel pomeriggio Campria e Cutrone fossero usciti con Tumino per accompagnarlo a consegnare “gli oggetti d’arte” al “terzo uomo” che aveva staccato gli assegni del Banco di Sicilia. Eppure quelle tessere del mosaico il giudice le aveva sul tavolo. Anzi, aveva anche una tessera in più. Dal fascicolo Tumino che il giudice cerca di portare avanti emerge un fatto molto interessante. Anche questo, a distanza di 50 anni, lo raccontiamo per la prima volta. Il 10 aprile del ’73 gli arriva una soffiata dal carcere: la compagna di cella di Vita Brullo, tale Giovanna Cassia, che è dentro per tutt’altri motivi, sa delle cose sull’omicidio dell’ingegne re. Due giorni dopo il giudice la va a trovare. La detenuta parla ma poi si rifiuta di verbalizzare la deposizione che Ventura riporterà ugualmente nel fascicolo anche se con scarsa rilevanza processuale. La donna racconta di essere stata a lungo amica di Angelo Tumino il quale le aveva confidato che in una circostanza, in presenza di Campria e «di un tale Giovanni Cutrone», si era incontrato con delle persone in un posto vicino a Catania con cui aveva avuto un diverbio molto acceso per una ragione che l’ingegnere non le aveva precisato. Il giudice quindi aveva un motivo in più per credere che Campria e Cutrone mentissero quando dicevano di non conoscersi e di verificare perché lo facessero. La Cassia sarà l’unica, tra le centinaia di persone sentite, a ricostruire un incontro che vede presenti insieme Campria e Cutrone. La detenuta racconta anche un altro fatto: un giorno l’ingegnere sarebbe corso in un certo posto per liberare Roberto Campria da alcune persone che lo avevano sequestrato per del danaro che pretendevano di avere. Riscatto che poi sarebbe stato pagato dall’ingegnere ottenendo la liberazione del suo amico. Il giudice non chiese alla detenuta a quando si riferissero le due circostanze raccontate. Ma un mezzo riscontro sulla storia del presunto sequestro ci arriva oggi dal figlio di Roberto Campria, Saverio, secondo il quale una volta il padre raccontò di aver subìto il tentativo di un sequestro da parte di alcune persone che volevano portarlo in alcune zone di campagna ma, da quanto ci ha riferito il figlio, Roberto Campria non fece accenno né a soldi né al presunto intervento di Tumino. Piccoli segni come macchie d’inchiostro, disseminati negli anni dentro i ricordi, compongono un puzzle più chiaro di prima ma ancora incompleto.
Il racconto del figlio di Campria è comunque un ulteriore indizio sulle pressioni che il padre si trovò a subire. Ma da parte di chi? Dopo le dichiarazioni della Cassia, il giudice Ventura fece interrogare Campria nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto ma invece di scavare nei rapporti tra lui e Tumino, sulla storia del sequestro e sui fatti di Catania, gli fece chiedere di un’altra confidenza della Cassia. Secondo la detenuta Campria avrebbe allacciato una relazione clandestina con una donna che era stata amante anche dell’ingegnere e che il giovane incontrava nel locale “La Tavernetta” di Modica. L’assassino di Spampinato negò: «Non ho mai conosciuto nessuna donna in quel locale dove sono andato sempre da solo». Ma la storia dell’amante contesa nel luglio del ’73 finì sui giornali aprendo nell’opinione pubblica anche l’ipotesi di una pista passionale. Insomma nonostante gli indizi, le circostanze, le confidenze, si scavò troppo poco nei rapporti Tumino-Campria, nella suburra degli scavi clandestini e in quel mercato oscuro di oggetti d’arte. Chi erano le persone che ruotavano attorno al lui e all’ingegnere? Chi era il terzo uomo degli assegni?Domande che forse gli inquirenti di allora si fecero ma alle quali non seppero o non poterono trovare delle risposte.
Il 21 ottobre del 1975 il giudice istruttore Ventura archiviò definitivamente a carico di ignoti il delitto Tumino. Un amaro senso di vuoto e di mancata verità pervase la comunità ragusana scossa da quei due omicidi. Tutto rimase come sospeso. Roberto Campria si vide ridurre da 21 a 14 anni la pena per l’omicidio di Spampinato e nel 1978 si liberò anche della zavorra della falsa testimonianza quando la Cassazione annullò le condanne di primo e secondo grado e il processo d’appello bis lo assolse l’anno dopo. Continuò a scontare la pena per l’omicidio che aveva commesso nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto senza volerne mai più parlare. Ragusa era rimasta muta sull’omicidio dell’ingegnere archiviato senza un colpevole. Passavano gli anni e cresceva il dubbio che ci fosse gente che sapesse ma non volesse parlare. Ma qualcosa di nuovo e inaspettato sarebbe accaduto di lì a breve. Nel 1982. Con l’arrivo del nuovo procuratore Paolo Frasca che provò a riaprire il caso Tumino.
Un’indagine opaca ma suggestiva nata dalle dichiarazioni di un testimone altrettanto opaco ma suggestivo. Un fascicolo rimasto fino ad oggi sconosciuto all’opinione pubblica con le dichiarazioni di un personaggio mai lambito dall’inchiesta del ’72 ma che per la prima volta indica ufficialmente un movente chiaro sull’omicidio dell’ingegnere e una persona su cui indagare. Il suo nome è Bartolo Dell’Albani.
(4 – Continua)