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Coronavirus, nel focolaio di Troina dove il virus è il rimpianto degli abbracci

Di Mario Barresi - nostro inviato |

Troina. «Che bello… Sono venuti pure i soldatini, ma quelli veri!», esulta un paziente. Grandicello nel corpo, fanciullino nell’anima. I visi dei suoi angeli, tiratissimi dopo turni massacranti, si riconoscono a stento sotto le robuste visiere. Facce che sembrano fatte di un materiale speciale. Né carne, né pelle. Ma una specie di gomma magica. Che si distende, al momento giusto, rilanciando soltanto sorrisi. A chi aspetta – anzi: pretende – soltanto quelli. Qui dentro, la guerra più dolorosa non è sul fronte invisibile che separa la vita dalla morte. Il vero conflitto, crudele, è di coscienza. Fra il rimorso dei tanti abbracci dati e il rimpianto di quelli ora negati a fatica.

«Ma come facciamo a spiegarlo ai nostri ragazzi?», è l’interrogativo – insolubile – che galleggia nei corridoi e nelle stanze dell’Oasi di Troina. Un castello incantato, a vederlo dall’ingresso dell’autostrada. Un albergone d’antan, quando ci si avvicina fino ad arrivare all’ingresso. Una stazione spaziale della Nasa, entrandoci adesso. I freddi numeri dei bollettini sul coronavirus dicono che qui c’è uno dei più virulenti focolai siciliani. Tant’è che il piccolo comune dell’Ennese è la quarta zona rossa dell’Isola. Eccoli, subito, i dati, per capire di cosa siamo parlando. L’esito di 253 tamponi, su 376 effettuati, cristallizza 112 positivi, di cui 69 pazienti (su 119) e 43 operatori (su 134). «Due sono da rifare», ci dicono. I contagiati, in realtà, sono in tutto 113. Elena, disabile di 52 anni, non ce l’ha fatta: è morta domenica all’ospedale di Enna, dopo tre giorni di lotta. Restano ricoverati in tre, ma «le condizioni complessive di tutti gli altri sono buone».

Eppure questo non è un lazzaretto per handicappati, né un villaggio turistico dove si gioca a mosca cieca col Covid. Sorta nel 1951, l’Oasi è la struttura più importante per la disabilità in Sicilia e ormai da anni un’eccellenza nazionale nella ricerche di neurologia e nella cura e nell’assistenza dei disabili. E oggi è messa a durissima prova da un nemico ancor più imperscrutabile dei diavoletti che svolazzano nelle menti dei 160 «ragazzi». Che qui restano tali, anche a sessant’anni. «Padre Ferlauto amava definire l’Oasi una città aperta, dove ognuno è qualcuno da amare. Ecco, siamo tutti stretti attorno a questa piccola grande comunità, cercando di dare ognuno il proprio contributo», dice Elena Pagana, deputata regionale del M5S.

Entrano i “soldatini”. In tutto 19 operatori sanitari militari, fra cui quattro medici, inviati da esercito e marina. «Non sono virologi, ma specialisti in scenari di guerra che affiancheranno il personale per migliorare tutte le procedure», precisa Giuseppe Murolo, commissario inviato dalla Regione. Ma vaglielo a spiegare, a questi signori con le mimetiche e gli zaini, che qui è tutto un campo minato perché non s’è voluto (e neanche potuto, forse) bombardare il cuore. «I nostri pazienti, per definizione, hanno bisogno di un contatto fisico», ammette la dottoressa Pinella Failla. Che ci rivela lo stratagemma per provare a mantenere un «distanziamento sociale» pressoché impossibile. «Abbiamo detto loro che ora gli abbracci e i baci sono vietati per legge, da quando dobbiamo indossiamo queste tute e queste maschere…». Lei è un medico e sta facendo «turni di non meno di 12 ore, che talvolta arrivano a 24». È fra i negativi al tampone, ma a casa Failla ha rivoluzionato le sue abitudini: «Siamo in tre e viviamo separati in due piani con tre bagni diversi. Ci vediamo solo la sera, a cena, e mangiamo distanti quasi come fossimo estranei. Lavoro all’Oasi da 31 anni e abbiamo affrontato tante sfide. Questa è la più difficile, ma la vinceremo».

E poi c’è Stefano Amata, giovane infermiere dell’Oasi risultato positivo al tampone. Genitori e fidanzata non li vede da giorni, «ma sto benissimo». Vive da solo, in centro a Troina, «in un appartamento che mi ha messo a disposizione un amico». Potrebbe imprecare contro quest’affetto morboso che ora lo ammorba. E invece no: «I ragazzi sono sempre appresso a te, cercano sicurezza nel contatto fisico. Come puoi fare a negargli un abbraccio?». Amata ha dovuto lasciare il campo. «Abbiamo affrontato una bomba scoppiata all’improvviso – racconta – con turni anche doppi e tripli. C’era chi montava alle 7 e smontava l’indomani di notte». Sì, perché, giura, «all’Oasi, dalle dottoresse fino alle signore delle pulizie c’è gente che ha le palle quadrate». Anche qui, però, vige la stessa brutale legge di natura emersa altrove: nei momenti di crisi c’è chi si nasconde (magari mettendosi in malattia) e chi dà ancora di più. Alcuni operatori hanno abbandonato le famiglie per non esporle al rischio del contagio. E trascorrono gli interminabili intervalli fra un turno e l’altro dentro una stanza dell’hotel Costellazione, requisito dal Comune.

Ma questa «bomba» è davvero scoppiata all’improvviso? Qual è la matrice del focolaio? E l’Istituto ha davvero fatto tutto per evitare la catena dei contagi? In paese – ancor più deserto dopo essere diventato zona rossa – gli “007” delle indagini epidemiologiche hanno quasi raggiunto la certezza: «Il coronavirus dentro l’Oasi l’ha portato un infermiere che aveva avuto contatti con l’impiegato comunale di Leonforte». Ovvero, l’uomo considerato l’“untore” dell’Ennese, che s’è scusato con tutta la comunità in un tenero audio in giro sui social. «Di certo il contagio non è uscito dall’Oasi, ma c’è qualcuno che l’ha fatto entrare», taglia corto il commissario Murolo. Che, avvolto in tuta e mascherina, ci racconta gli «aggiustamenti» che ha dovuto fare dopo essersi insediato, il 24 marzo. Perché «il contagio esponenziale è dovuto a caratteristiche intrinseche». Alcune legate «alla struttura, concepita come un albergo». Ma altre dipendono dalle abitudini consolidate, «come i volontari che vivono dentro, con stanze e spazi aggregativi, proprio loro che, con il massimo della buonafede e della voglia di rendersi utili, sono gli operatori più a contatto con i pazienti». Murolo ha nominato un nuovo direttore sanitario (Corrado Romano) e ha attuato un piano d’emergenza: formazione online sulla gestione del virus, sanificazione della struttura, dispositivi di protezione per tutti. E poi «una netta separazione fra i negativi e i positivi, quest’ultimi in aree esclusive». Un’altra selezione, purtroppo necessaria, dopo quella fatta (e subita) dalla Natura alla nascita.

Ma c’è chi si dice certo che «supereremo le difficoltà e le incomprensioni e dimostreremo che non abbiamo mai giocato con la vita dei nostri ragazzi, che nessuno avrebbe potuto seguire meglio di noi anche in queste circostanze». È don Silvio Rotondo, presidente dell’Oasi, che fa sentire la sua voce dalla stanza dell’Umberto I dov’è ricoverato. «Sto bene, ho un respiratore leggero che tolgo quando voglio», rassicura. Per poi rivendicare che «abbiamo operato senza scafandri e senza nulla addosso, e non perché ci sentivamo eroi, ma perché sappiamo che dobbiamo aiutare persone che da un sorriso e da un abbraccio ricevono vita».

Ma chi l’ha detto che fuori da qui si stia meglio? «Non vediamo i nostri figli da settimane, viviamo uno stato di ansia perenne in attesa del bollettino serale della struttura», racconta Angelo Cellura, presidente dell’associazione “Noi e l’Oasi”. «La lontananza da noi genitori è un’altra prova che i nostri ragazzi stanno affrontando. Cerchiamo di caricare meno possibile il personale di altro stress e chiamiamo ogni due giorni per avere notizie. Ci mancano le loro voci, i loro sguardi, i loro abbracci. Ma sappiamo che sono in buone mani, quelle di persone splendide che stanno facendo più del loro dovere». Compreso quello di prendersi cura di chi, fuori dall’Oasi, non ha più nessuno. Per scelta del destino o per umane miserie. Un “dopo di me”, che qui è già “durante”. Vorremmo parlare anche con altri due genitori di una paziente disabile. Ma nel pomeriggio capiamo che non è il caso: la figlia diciassettenne è fra i positivi dell’ultimo aggiornamento. «Ci scusi», è il dignitosissimo commiato.

E sta male pure Fabio Venezia. Il sindaco di Troina, sotto scorta per le sue battaglie contro la mafia dei pascoli, se ne sta chiuso in casa, dopo essere stato giorno e notte nella trincea dell’Oasi. «Sono a letto con febbre e dolori», ci dice al telefono, dopo che «la tac ha evidenziato purtroppo un principio di polmonite e due piccoli focolai negli alvei polmonari». Ma, in attesa dell’esito del tampone, Venezia con un filo di voce continua a difendere quel gioiello di ricerca e cura (con 650 dipendenti, una Fiat nel deserto dell’Ennese) che è diventata una nave da crociera carica d’infetti ma senza porto né mare. «I cittadini soffrono ma si stringono all’Oasi, c’è solidarietà. E nessun contagio fuori da questo link». Il sindaco rivendica che «a fronte dell’imprevedibilità dell’emergenza, la risposta è stata forte: ho requisito l’albergo per il personale e ho messo in quarantena mille persone in una sola volta, due misure che hanno evitato il peggio».

È ormai buio pesto, quando esce Giovanni Giambirtone, caposala degli infermieri del padiglione di Casa Speranza. E non vorrebbe essere in nessun altro posto al mondo che non sia l’Oasi. «I nostri ospiti non hanno scelto di essere disabili né di prendersi il Covid-19, ma noi abbiamo scelto di fare questo mestiere e abbiamo il dovere di assisterli, oggi più che mai». Anche dovendo negare qualche abbraccio. «Ma lo stanno capendo. Ci guardano, quasi irriconoscibili con tute e visiere, e ci sorridono come farebbero a un marziano sbucato da una navicella». È stanchissimo. E si congeda sussurrandoci un piccolo grande segreto: «Guardi che di quegli abbracci, forse, noi ne abbiamo bisogno almeno quanto loro».

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