Tra Donald e Kamala, a chi parlano dive e popstar

Di Antonello Piraneo / 07 Novembre 2024

E se a decidere fossero state, con i loro endorsement, Julia Roberts e Taylor Swift? E se la sconfitta di Kamala Harris si potesse spiegare così, ovvero con l’inutile album delle figurine per contrastare l’eloquio torrenziale e populista di Donald Trump, peraltro abile nel gigioneggiare al suono dei Village People? L’interrogativo è provocatorio o forse no. Perché la risposta richiede una riflessione su come ci si pone di fronte alla deriva dei proclami strombazzati, degli annunci roboanti, delle promesse pressoché irrealizzabili. Dal milione di posti di lavoro in giù o in su, decida il lettore.

L’applausometro di un istante

Giova parlare alla gente, aldilà dell’applausometro di un istante, attraverso la diva, la star, l’icona pop del momento? O all’elettore medio, magari proprio a quello indeciso, serve proporre un’idea concreta, un ragionamento, un programma lineare e non lunare, portare sul palco una testimonianza dal basso, una persona qualunque che magari non fa titolo ma che con chi ascolta o legge condivide la quotidianità vera, e quindi i problemi legati alla crisi economica e sociale, alla disgregazione dei valori, all’involuzione delle relazioni interpersonali? Perché Julia Roberts, scesa dal palco, ha una sua vita che non è assolutamente assimilabile a quella di una qualsiasi altra donna dell’universo mondo.
Anche per questo Donald Trump riesce a vincere. Una vittoria nonostante: nonostante i dubbi sulla politica estera (ma da un pezzo gli americani non si sentono né vogliono esser i poliziotti del mondo), nonostante le gaffe, le battute razziste e sessiste sue e dell’improbabile “comitiva” che lo seguiva.

La lezione anche per Elly

Vale oggi per Kamala Harris, ma ieri e domani per qualsiasi altro campo progressista, largo o stretto che sia, anche italiano. Elly Schlein ci rifletta sin da adesso: l’ultimo comizio non lo faccia con accanto Nanni Moretti o Elodie, porti con sé una donna che sa quanto è complicato coniugare lavoro e famiglia, un operaio che ha perso il lavoro o un braccio, uno studente che ha messo da qualche parte il diploma di laurea e che poi è andato a lavorare, con tutto rispetto, all’Ikea, oppure ancora uno dei tanti talenti che spendono le proprie competenze non per la propria nazione che ha un orizzonte piccolo.

I veleni non bastano

Anche questa elezione così carica di veleni ci dice che l’avversario non si batte per via giudiziaria né demonizzandolo, lo si contrasta soltanto con la forza delle idee, se le si hanno più convincenti di un facile populismo. Per certi versi – e, beninteso, con gli ovvi e necessari distinguo – il successo trumpiano ricorda l’epopea berlusconiana. Ricordate? Più il Cavaliere veniva sommerso dalle inchieste giudiziarie e più accresceva i suoi consensi. Più lo si caricaturava col bunga bunga e più, essendo Berlusconi l’arcitaliano, in tanti se ne infischiavano o forse lo invidiavano. Ssshhh, non si può dire. Berlusconi perse soltanto quando qualcuno fu capace di batterlo sul piano dei programmi e non dell’illusionismo.
Per tutto ciò quella americana può essere una lezione anche per l’Italia, per le democrazie occidentali, per qualsiasi tipo di elezione. In fondo, Washington non è tanto diversa da Roccafiorita.

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Pubblicato da:
Fabio Russello