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L'Osservatorio

Se il leaderismo è un’opzione generale

La possibilità - anche nell’azione politica - di costituire connessioni dirette “virtuali” tra semplici cittadini e attori di essa ha fatto affievolire (fino a spegnerne di fatto la pratica) ogni costume di relazioni partecipative “fisicamente” organizzate

Di Sandro Corbino |

Continuano a fare discutere le scelte che hanno accompagnato la formazione delle liste per le ormai prossime elezioni europee. Meriterebbero un’attenzione meno banale di quella che non stiano ricevendo. Rivelano una deriva del nostro sistema politico sulla quale sarebbe bene riflettere. Il generale cedimento verso il leaderismo segna il punto di arrivo di una vicenda ormai ultratrentennale, che – piuttosto che demonizzare – sarebbe meglio approfondire.

La possibilità – anche nell’azione politica – di costituire connessioni dirette “virtuali” tra semplici cittadini e attori di essa ha fatto affievolire (fino a spegnerne di fatto la pratica) ogni costume di relazioni partecipative “fisicamente” organizzate. La tendenza è chiarissima. Sono scomparse le vecchie forme “partitiche” della prima Repubblica, con i conseguenti vincoli (tesseramento, apparati, ritmo cadenzato di riunioni gerarchicamente articolate, catene strutturate di comunicazione) preordinati ad una elaborazione dal basso delle idee da promuovere e delle persone deputate a gestirle.Vado ovviamente per larghissime approssimazioni.

L’azione politica ha smesso di essere la risultante di un incontro “mediante” (multilivello) di punti di vista (in un rapporto “circolare”, nel quale “base” e “vertice” si influenzavano vicendevolmente) per trasformarsi sempre più nella risultante di una “iniziativa” di gruppi abbastanza “chiusi” di vertice (finanziariamente autosufficienti e che si rinnovano per cooptazione) alla quale i promotori (i dirigenti delle nuove formazioni politiche, che non a caso hanno – quasi tutte – assunto denominazione diversa da quella “partito”) chiedono agli elettori di rivolgere consenso. È il modello avviato, negli anni ’90, da Berlusconi (il “partito azienda” come fu definito), divenuto praticamente generale (in forme meno trasparenti, ma molto aderenti in buona sostanza). La finalità era palese. Si intendeva introdurre una più “agile” capacità di reagire alle cose e una conseguente maggiore tempestività di elaborazione, oltre che un – funzionalmente preordinato – “accentramento” delle decisioni, con conseguente svalutazione dell’azione periferica territoriale, che diveniva, da “punto di partenza” quale era stata, “punto di arrivo e di diffusione”. Il che ha portato – nell’essenziale – a una competizione tra “proposte” (autogenerate) sulle quali si chiede la pronuncia del corpo elettorale, ora inoltre “rappresentato” non da soggetti da esso “eletti” (come avveniva con le preferenze) ma da esso “legittimati”, nell’ambito di elenchi proposti dai partiti, in una misura numerica determinata dai voti di lista, ai quali viene demandata l’“azione politica” (parlamentare, governativa, culturale) ispirata dai programmi centralmente definiti.

Com’è sotto gli occhi di tutti, non è una questione di destra e di sinistra. Il cedimento (se anche con tempi e intensità diversi) ha riguardato tutti gli schieramenti. Le questioni agitate, in vista della scadenza elettorale europea, sono state due. La candidatura dei leader e il nome di essi in calce alle liste. Entrambe hanno visto largamente prevalere l’idea della opportunità sia della candidatura che della inclusione del nome del leader (attuale o storico, come per Berlusconi) nella lista. Al nome nella lista lo stesso Pd si è sottratto solo con tormenti. Se vi sono ancora le preferenze è probabilmente solo perché erano ancora un fatto ordinario quando fu approvata (1979) la legge elettorale vigente. Le ragioni di questa tendenza di cose sono pratiche e anche comprensibili. Le elezioni che stiamo per celebrare ricevono con evidenza interesse più come occasione di verifica dello stato di salute delle varie formazioni in corsa (le stesse – o quasi – di quelle rappresentate in Parlamento) che come momento di confronto sui problemi specificamente europei, se non proprio assenti, molto sullo sfondo, anche per la evanescenza di questa indefinita idea di Europa che, purtroppo, ci trasciniamo. Sono vissute come un sondaggio solenne, molto più affidabile degli ordinari. Nessuno (o quasi) avverte perciò la scorrettezza (denunciata con energia anche da Prodi) di proporre candidature di soggetti (i leader) che dichiarano sin d’ora che non accetteranno l’eventuale elezione (incompatibile con il loro ruolo di parlamentari nazionali). Comprendono tutti che l’elettorato ha ormai una “fidelizzazione” con le persone molto superiore a quella che ha con le formazioni politiche.

Può non piacere (a me piace poco). Ma questa è la realtà. La direzione “leaderistica” (inaugurata da Berlusconi) ha progressivamente coinvolto tutti. Anche Schlein. Se vogliamo dunque guardare alle cose con distacco, non possiamo non prendere atto di quanto è accaduto in trent’anni. I cambiamenti avranno anche “deformato” il nostro sistema politico, ma se la reazione (ormai consumatasi) è stata quella di accettare nei fatti le novità, non può essere senza significato. Se tutti vi si sono adattati, è più probabile che ne abbiano visto la maggiore funzionalità che non che le abbiano soltanto subite. In questi trent’anni si sono avvicendati al governo tutti. Nessuno ha ritenuto di intervenire. Piuttosto che provvedere a regolarla (secondo quanto previsto in Costituzione), la forma “partito” è stata lasciata morire di fatto e il regime elettorale, pur mutando ripetutamente, è stato orientato dalla costante preoccupazione di assicurare (attraverso meccanismi maggioritari) la formazione di governi meno fragili di quelli del tempo precedente.

Non sarà facile restituire alla nostra democrazia forme più aperte alla possibilità di una effettuale partecipazione di noi comuni cittadini alla “elaborazione” politica. La ostacolano molte cose. In primo luogo, l’interesse delle “oligarchie” (per fortuna ancora almeno in competizione) che hanno occupato il campo e dalle quali dipenderebbe un intervento correttivo. Non è però il solo problema. Gli interessati alla partecipazione sono oggi (come la diffusione dei talk show politici e i social attestano) enormemente cresciuti in numero, ma sono anche divenuti al contempo molto restii ad accettare forme di “mediazione”. Anche le competenze necessarie si sono fatte molto più severe, meglio individuabili perciò da ristrette sedi di decisione che attraverso processi “partecipativi”, che oltretutto rallentano l’azione, quando i contesti invitano invece alla tempestività.Più che disapprovare e condannare dovremmo esercitare fantasia costruttiva. Il che esigerebbe visione. “Vedere lontano” non è precisamente però ciò che è nei costumi del nostro tempo che sembra voler vivere solo di presente.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA