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Sanremo, il carrozzone dell’effimero

Di Filippo Arriva |

Eduardo, nei panni di Pulcinella, poetava delle canzoni rivelando che sono nell’aria, basta alzare la mano verso il cielo e ne afferri subito una. Tutti lo possono fare. E allora sarà colpa dell’inquinamento antipatico, del virus dispettoso, del surriscaldamento permaloso, ma non se ne acchiappano più. Intendiamoci, diciamo delle canzoni che nei decenni restano. Quelle che aprono cuori, incontri ed epoche. Quelle che quando le fischietti dischiudono con delicatezza la porta del tempo.  La buona musica ormai sta a Sanremo come Nerone ai pompieri (chi scrive confessa di appartenere a quella schiera sparuta che non ha ancora compreso la qualità musicale dei Maneskin). Non ci tocca il dubbio che il festival dei festival sia un evento, un appuntamento immancabile, lo specchio deformante della società italiana. Come è pur certo che Amadeus, negazione vivente del detto “nomen omen”, ha inserito pirandellianamente i vecchi e i giovani. Resta da trovare la buona musica. Usiamo le parole di Guccini: “Io non voglio Sanremo e Sanremo non vuole me. Siamo due sistemi di comunicazione molto diversi”. 

Un festival proiezione dell’effimero che dura per sempre. Come si ripete continuamente: le belle canzoni non svolazzare sui fiori della riviera (sanremese). E se un fiore emerge, la falce della gara fa il suo lavoro. Miscugli di punteggi telefonici, interessi produttivi e look “creativi” riescono a sconfiggere le più armoniche creazioni. Quelle che immancabilmente recuperano a gara conclusa. Da ricordare è il lancio di spartiti, cosa più unica che rara, da parte dell’orchestra all’annuncio della bocciatura di Malika Ayane, con Ricomincio da qui, composizione tanto classica, tanto italiana, da sembrare antica, preistorica. 

Sanremo non fa mai i conti con la musica, ma con i dati d’ascolto santificati. E il conto da saldare non arriva mai. Una rassegna canora, dentro una scenografia ridondante quanto un simil Las Vegas, che ogni giorno torna a promettere, ma alla sera resta immancabilmente debitrice. Nell’altalena tra musica e occhiata fugace dalla finestra sulla realtà, tutto si annacqua tra fondamentali informazioni sulle presentatrici: la paura di mettere il tacco 13, l’abito che possa rendere sempre più difficile scendere per le antiche scale, il numero dello sbattere le ciglia finte. Ecco il falso ergersi sornione a maestro di estetica ed etica. Un carrozzone, come potrebbe cantarlo Renato Zero, che prende, sempre più, le forme di una enorme fiction all’italiana capace di limare le unghia ai pensieri, colorarli con applicazioni sgargianti. 

Si naviga tra le presentazioni, quelle generose che regalano a tutti “è un onore”, sommando aggettivi e superlativi da instancabile tripudio: “fantastico”, “grandissimo”, “meraviglioso”, “elegantissimo”… E tra questa aggettivazione rutilante parlerà Zelensky, lui che invece vive e combatte, con tutta l’Ucraina, un terribile dramma vero, doloroso, carico di morte.  Comunque e sempre il rapimento del festival sarà totale. Si conteranno in milioni gli spettatori. Ne saremo felici! La crisi economica, dell’energia, l’aumento dei prezzi, l’inflazione, per un momento saranno, e aggiungiamo giustamente, dimenticati così da far diventare la realtà, la politica, le sofferenze, un paese straniero. Resta l’ombra sfarinata del panem et circenses che aleggia. Proprio oggi che il pane aumenta e sul ponte sventola bandiera bianca (quanto ci manca Battiato!). Così alla fine resteremo ancora proustianamente, in pochi, alla ricerca della canzone perduta. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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