Non c’era campo, quel sabato pomeriggio di dieci anni fa. Nella sala di un hotel di Giardini Naxos – mentre il compianto Lino Leanza lanciava la sua nuova Sicilia Democratica – i cellulari erano isolati. E quando in platea irruppe Saro Crocetta – suo more, come un elefante in una cristalleria – ci fu un sussulto: «Hanno ammazzato un pampìno, è una storiaccia. Mi ha chiamato la famiglia, io domani ci vado». Ma dove? A Santa Croce Camerina.
E così la domenica mattina il cronista s’era già trasferito all’ormai celebre “canalone”. Era l’ingresso, inconsapevole, dentro un tunnel. Professionale, ma soprattutto umano.
L’omicidio di Lorys, da lì a un paio di giorni, sarebbe diventato il caso di cronaca nera per antonomasia. E dire che all’inizio nessuno chiamava la piccola vittima col suo vero nome: nelle prime cronache locali era Andrea. E fu arduo convincere il burbero capo delle Cronache regionali. «L’abbiamo chiamato sempre Andrea, il lettore si confonde!». Ma cedette, quando tutti i tg nazionali aprivano con le indagini sulla morte di Loris. Con la “i”, perché nessuno, subito, verificò che all’anagrafe era scritto Lorys, con la “y”.
Non c’era tempo, perché eravamo già tutti dentro questa storia, dalla punta dei capelli all’unghia del mignolo.
Le prime giornate, con l’ombra dell’orco in libertà, erano scandite da una sorta di tazebao di un macabro villaggio vacanze. La mattina i giochetti in piazza col Cacciatore (l’uomo che ritrovò il cadavere come se sapesse dove cercarlo), a pranzo le scacce nel panificio di Santa Croce frequentato dagli investigatori, di pomeriggio un passaggio in procura a Ragusa. E poi tutti a scrivere, provando a carpire un dettaglio in più, un nuovo brandello di verità.
Fino a quando il palcoscenico se lo prese lei. Veronica Panarello. In teoria la madre disperata. Ma sin dall’inizio chiacchierata, scrutata. Sospettata. L’inviato di questo giornale fu l’unico, con l’interessata complicità dell’ormai celebre avvocato Franco Villardita, a parlarle, assieme al marito Davide. A casa loro. Senza sapere che era la scena del crimine. Lei, dopo qualche minuto, si allontanò per andare a piangere, con studiata platealità, sul divano. Per interrompere i singulti, però, ogni qual volta il discorso col marito (che poi ci rilasciò l’intervista al posto di quella che voleva fare lei) cadeva su punti delicati delle indagini.
Poi l’arresto, l’8 dicembre. Tutti i giornalisti, tornati a casa per una pausa festiva, furono richiamati sul campo da una telefonata: «La stiamo andando a prendere». Non c’era nemmeno bisogno di specificare chi. Il lungo interrogatorio in una notte in cui a Ragusa faceva il freddo che fa a Pordenone, il fermo, il trasferimento in carcere. Sembrava finita, invece era appena iniziata. Le bugie e le sentenze, i segnali dal carcere e le piste alternative, le tante versioni di Veronica e le scenate in tribunale. Tutto in una specie di reality che sembrava costruito da Orson Welles: la madre Medea, il padre-ragazzino, il nonno giovanotto; il procuratore col sigaro, il capo della Mobile bello e dannato; l’avvocato buono e l’avvocato cattivo. E tutta una serie di comparse, alcune delle quali reclutate con i «regalini» offerti dall’allora reginetta dei pomeriggi tv, mentre la troupe di un altro programma si dilettava a spargere slip identici a quelli del bambino nei pressi della scuola.
Abbiamo dato il meglio di noi. Ma anche il peggio. Ma nessuno di noi dopo quelle settimane è stato più lo stesso. Quell’infanticidio, poi finito con una condanna a 30 anni e un movente tutt’ora misterioso, ci ha segnati tutti. Per sempre. Eppure, a mente fredda, riaffiora un profondo senso di colpa. Aver concentrato tutto su di lei. Non è mai stato l’omicidio Lorys, ma il caso Veronica. Era lei a dare le carte, sin dal primo istante. E tutti la seguivano. Allora a quel bambino che oggi sarebbe maggiorenne dobbiamo tutti delle scuse. Perdonaci, caro Lorys, se per avere pace la tua anima ha dovuto aspettare dieci anni.