Come previsto, è approdata in Aula alla Camera la riforma della separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, proposta quale salvifico rimedio ai problemi della Giustizia. Chi la propone afferma ottimisticamente che la separazione rappresenta il coronamento di obiettivi ambiziosi e necessari al contempo: il compimento del processo accusatorio, la agognata parità delle armi tra accusa e difesa, la terzietà effettiva del giudice. I più entusiasti giungono ad affermare che la divisione determinerà (vai un po’ a sapere perché) la decisa accelerazione dei tempi processuali e la scomparsa delle correnti dei magistrati. Tralasciamo di confutare le previsioni fideistiche e infondate dei benefici effetti sui tempi della giustizia e sulla eliminazione del correntismo, che proprio non si capisce come possano essere incise da una riforma che attiene esclusivamente allo status ordinamentale dei magistrati. Nulla, ma propria nulla ha a che vedere con i tempi lunghi del processo – che dipendono principalmente da una domanda di giustizia spropositata e che non può essere smaltita da un sistema di procedure ingessate e farraginose – e con la deriva del correntismo (inteso come carrierismo) della Magistratura – che discende dal prevalere della logica dell’appartenenza su quella del merito.
Questi problemi si riproporrebbero inalterati anche se i giudici e i pm venissero separati. L’unicità dell’ordine giudiziario non ha nulla a che vedere con tutto ciò. Ma, a ben vedere, anche gli obiettivi della parità delle armi e della terzietà del giudice poco ci azzeccano con l’unicità ordinamentale di giudici e pm.
Secondo i fautori della proposta, l’unicità delle carriere apporterebbe pregiudizio ai diritti della difesa, in quanto chi è chiamato ad amministrare giustizia è incline a ritenere degne di maggior fede le tesi di un collega, appartenente al suo medesimo ordine, anziché quelle di un difensore privato.
Corollario di tale spirito di colleganza sarebbe l’appiattimento del giudicante sul requirente, a tutto discapito dei diritti del cittadino. Tali storture svanirebbero grazie alla riforma. Così il pm, attualmente persecutore di indagati e angariatore di giudici, diventerebbe, una volta baciato dalla novella, un magistrato dotato degli stessi poteri del difensore e perciò indipendente e equilibrato. Da ranocchio a principe, come nella favola. Favole, appunto. E vediamo perché.
In primo luogo, il contraddittorio processuale in condizioni di parità e la terzietà del giudice, previsti dall’art. 111 della Costituzione, riguardano regole processuali e poteri attribuiti alle parti, e non gli assetti ordinamentali del giudice e del pm (il quale, a differenza del difensore, ha il dovere e l’obbligo di ricercare la verità, come pure le prove a favore dell’imputato). Quanto alla ipotizzata maggior suggestione sul giudice delle prospettazioni accusatorie formulate da un collega, rispetto a quelle esposte dal difensore, ed al preteso appiattimento del decidente sull’accusa, si vuol qui fare torto grossolano alla capacità professionale e, prima ancora, alla assennatezza di chi giudica, posto che non appare verosimile che nel nostro sistema, che conosce un doppio grado di valutazione di fatto e di diritto, ed un terzo di solo diritto, vi sia spazio per simpatie personali e spiriti di corpo. Se questo fosse, non basterebbe separare giudici e pm, ma occorrerebbe dividere le carriere dei giudici di primo grado da quelli di appello, per non parlare della Cassazione.
Già a legge vigente, le carriere di giudici e pm sono separate di fatto, se non di diritto, in quanto per esercitare le differenti funzioni (passare da giudicante a requirente e viceversa) occorre cambiare addirittura la regione di residenza, con le difficoltà pratiche (spesso insormontabili) che questo comporta. Ma se nessuna commistione, dunque, tra giudici e pm è in concreto possibile, l’unicità (quanto meno nella formazione e nelle garanzie) delle carriere tra giudici e pm è unicità della cultura della giurisdizione e costituisce dunque salvaguardia per il cittadino; è presidio ineludibile per l’indipendenza e l’autonomia nell’esercizio della azione penale, per il controllo sulle indagini preliminari e sulle modalità di svolgimento delle stesse; è ostacolo invalicabile per i progetti volti ad asservire il pm al controllo della maggioranza di governo e a introdurre la discrezionalità dell’azione penale. Separare il ruolo del pm da quello del giudice comporterebbe invece – inevitabilmente – l’allontanamento dell’inquirente dalla cultura della giurisdizione e della terzietà, intesa come occasione di ricerca ed approfondimento probatorio di più largo respiro, e il suo appiattimento sulle posizioni (peraltro legittime e doverose) degli organi di polizia. Con la riforma, poi, non si comprende quali concrete garanzie tutelerebbero lo statuto ed il modo di funzionamento del pm, al fine di non renderlo pavido, inerte, in una parola acquiescente nei confronti di quei pubblici poteri presso i quali risulterebbe incardinato ed in buona sostanza dipendente. Perché non va dimenticato che l’attuale figura di pm delineata in Costituzione costituisce una evoluzione del modello previgente, che lo qualificava “rappresentante del potere esecutivo presso l’Autorità Giudiziaria”, ponendolo sotto il controllo funzionale e la dipendenza amministrativa del governo. In quella concezione, stabilire quali reati vanno perseguiti, e, soprattutto, in quale modo, rientrando tra i tanti modi, diversissimi, sia le indagini attive, solerti, alacri, in fervida caccia di piste e di prove, sia l’elusione dell’incontro con esse, è compito di troppo rilievo per potersi affidare ai magistrati, essendo assai più opportuno venire gestito direttamente dal governo.
Il nostro sistema rappresentò così un perfezionamento, esplicitamente perseguito e voluto dall’Assemblea Costituente ed in particolare da Piero Calamandrei, politico, intellettuale antifascista e – guarda un po’ – avvocato. Sostenne allora lucidamente Calamandrei che, configurando un ordinamento giudiziario il cui giudice, sfornito di iniziativa propria, non può mettersi in moto se non lo richieda di ciò un funzionario dipendente dal potere esecutivo, si rende detto potere, in ultima analisi, arbitro della giustizia sino ad annullarla di fatto. Dire da un lato che la giustizia è indipendente dalla politica, e dall’altro lasciare al governo la facoltà di decidere in base a considerazioni politiche se la giustizia debba o non debba seguire il suo corso, affermare da una parte che la legge è eguale per tutti e dall’altra lasciare al potere esecutivo la possibilità di farla osservare nei casi in cui non dispiaccia al partito che è al governo, è un tale controsenso che non importa spendervi su molte parole per rilevarne tutta la enormità.
Concludiamo, dunque. La separazione delle carriere costituirebbe un passaggio fondamentale verso l’erosione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (principio evidentemente vulnerato dalla discrezionalità della azione penale affidata a un pm funzionario del potere esecutivo). Non di un pm che faccia il poliziotto, c’è bisogno, ma di un pm che, oggi assai più di ieri, sappia fare il magistrato.