L'editoriale
La Sicilia possibile e le sue ambizioni
“Trattoria del Mediterraneo” o potenziale riferimento per un’area strategica in chiave addirittura europea?
Del fatto che l’Italia sia diventata il “supermercato d’Europa” ce ne siamo fatti una ragione, perché viviamo l’era della globalizzazione e, quindi, ogni ragionamento autarchico è fuori dal tempo. Però è sintomo di declino: dalla motoristica ai brand di lusso, i “padroni” sempre più spesso sono altri – tedeschi e francesi soprattutto – e il “made in Italy” è affidato alla lungimiranza di imprenditori piccoli e medi, oltre che essere celebrato un po’ presuntuosamente con un dicastero.
Il punto che ci interessa qui e ora, appena superata la boa di mezza estate, è un altro: se l’Italia è “il supermercato d’Europa”, è inevitabile che la Sicilia abbia come unica ambizione l’essere la più grande “trattoria del Mediterraneo”, e non, invece, quella di proporsi come potenziale riferimento per un’area strategica in chiave addirittura europea? Non è un interrogativo retorico, perché la risposta è nei numeri degli analisti economici – i più recenti sono del centro studi Srm di Intesa Sanpaolo – che magari appassionano meno di una litigata sui massimi sistemi, ma che hanno l’innegabile forza dell’oggettività dei dati. E questi numeri ci dicono che la Sicilia è la regione in cui maggiore è il numero degli investimenti in attività d’impresa, che riguardano il 76% degli imprenditori. Certo, il quadro è complesso, ha luci e ombre – per esempio, i piccoli artigiani tendono a scomparire – e beninteso, a proposito di “trattoria del Mediterraneo”, il traino importante e fondamentale resta quello del comparto turistico, perché siamo sinonimo di vacanze, essendo la Sicilia terra di sole e mare e storia e cultura e tradizioni e paesaggi e prodotti tipici.
Accanto, però, esiste una rete “nascosta”, perché silenziosa, di industrialità dal basso, di startup immaginifiche che si specchiano nei colossi dell’hi-tech, che qui trovano intanto il terreno fertile delle competenze giuste. Non a caso il modello Etna Valley resta il faro che illumina il resto.Tutto questo per dire che è orgogliosamente possibile dirsi siciliani, perché capaci e tenaci, così tanto capaci e tenaci da superare le obiettive difficoltà del gap infrastrutturale, della lentocrazia, della politica degli accordicchi.Occorre investire su questo cambio di passo, modificare il paradigma dei rapporti con Roma (e Bruxelles) dal mero rivendicazionismo alla progettualità. Anche sul Ponte: giovasse solo alla Sicilia e alla Calabria, ne avrebbe della “cattedrale nel deserto”, ma visto come pietra angolare di un sistema Europa che guarda finalmente al Mediterraneo, sarebbe strategico e si porterebbe dietro altri investimenti in parallelo con la Zes e le opere del Pnrr.
L’interrogativo, allora, deve essere anche un altro: riusciamo a non presentarci soltanto e sempre con il cappello in mano e a essere credibili perché propositivi? Ha ragione Nello Musumeci, che da ministro della Protezione Civile invita – al di là della fase contingente con cui la Regione richiede al governo di rifondere i danni e i disagi patiti dal territorio – a un nuovo approccio rispetto all’emergenza Etna: intanto perché emergenza non è, trattandosi di condizione immutabile. Catania vive ai piedi di un vulcano attivo e serve attrezzarsi con ciò che è possibile, come accade in Islanda e in Giappone, dotando i Comuni di mezzi idonei e poi facendoli usare. Anche qui non serve l’elemosina, ma una visione.La stessa che hanno avuto le imprese di seconda e terza e quarta e quinta generazione per essere ancora sul mercato e le altre che hanno il coraggio di reinventarsi, giunte al bivio dell’orizzonte che ci si vuole dare.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA