I colori dell’arcobaleno che a metà mattina spazzano il grigio della giornata uggiosa e piovosa con cui si era svegliata Palermo hanno una forte valenza simbolica e sembrano disegnati su una tavolozza dalla felice vena artistica del destino. Perché l’arresto di Messina Denaro dopo una latitanza trentennale non resti solo uno squarcio, perché questa giornata sia davvero quella della festa della lotta alla mafia, come annunciato da Giorgia Meloni, catapultatasi a fianco dei Ros, dei magistrati e della gente che applaudiva davanti alla caserma dove la primula rossa è stata portata, ecco, per dare un senso a tutto questo occorre andare oltre l’emotività del momento.
Serve da subito svelare la rete di complicità – che è altro rispetto alla rete di protezione di vedette e picciotti che hanno alimentato la leggenda del boss imprendibile – toccando i sepolcri della connivenza con la borghesia e, chissà, pezzi deviati dello Stato. Quello che non accadde giusto trent’anni fa, coincidenza che probabilmente va oltre la casualità del calendario, quando venne arrestato Totò Riina. E sappiamo quanto lunga sia stata la scia di veleni seguita a quell’altra giornata di festa: il covo di via Bernini mai perquisito, sorvegliato soltanto poche ore e poi lasciato a chi portò via tutti i possibili dossier, per una precisa scelta investigativa secondo una verità giudiziaria mai troppo convincente, il sospetto di una “consegna” da parte dell’altro boss corleonese Bernardo Provenzano, l’ombra di una trattativa che non si può certificare con un processo ma che resta nei sottofondi dei misteri più insondabili del Paese. Messina Denaro, anche lui, viene arrestato sotto casa nostra, non in un rifugio sudamericano gestito dalle mafie internazionali, non in chissà quale esotico atollo: la presenza è potenza.
Si volta pagina ma per aprirne un’altra, dunque. La mafia stragista dei padrini effigiati con foto sbiadite è finita, ma resta la mafia sommersa, resta soprattutto il brodo di coltura della mafiosità. L’arresto di Messina Denaro è comunque un successo dello Stato di diritto. Perché anche lui morirà in carcere o in una struttura ospedaliera dedicata in cui dargli l’assistenza e le cure mediche necessarie a un malato di tumore. Questa è la forza di uno Stato che deve sconfiggere la mafia e la mafiosità. Proprio in ragione di ciò, questo stesso Stato deve essere capace di cercare le verità tutte, anche le più scomode. Altrimenti l’arcobaleno di ieri mattina sarà solo lo schizzo di un dipinto lasciato a metà.