«Eccomi fra voi per annunciarvi la speranza!» Con queste parole Giovanni Paolo II, trent’anni fa, esprimeva il senso della sua presenza a Catania. Conosceva bene quello che negli anni ’80 la Sicilia aveva vissuto, e comprendeva, da padre, che occorreva rincuorare anche i catanesi, che stavano intraprendendo un nuovo percorso di impegno per la giustizia. L’invito a superare la rassegnazione nasceva dalla constatazione che «troppe volte e da troppo tempo i figli di questa Comunità hanno subito l’umiliazione di essere additati come abitanti di una Città degradata e violenta dominata dalla criminalità, rassegnata e resa invivibile».
La via alternativa alla fuga in territori dove cercare lavoro e serenità, era quella che spingeva a restare a Catania con motivazioni alte e a rialzarsi. I cinque discorsi tenuti tra il 4 e il 5 novembre sono come l’abbraccio di un Papa che aveva a cuore la guarigione della città dalle ferite inferte dalla mafia e dal disorientamento politico diffuso, causato da Tangentopoli in tutto il Paese: sono le parole alla cittadinanza a piazza Duomo, quelle ai giovani che gli facevano gli auguri di buon onomastico a piazza Alcalà, l’omelia alla Messa in via Giuffrida, quelle dell’incontro allo stadio di Cibali con i giovani, il discorso al mondo della cultura e la lettera inviata ai detenuti del carcere minorile di Bicocca. Questi cinque interventi sono una “piccola enciclica” scritta per Catania, che conserva ancora un’attualità sorprendente, sia per la freschezza dei contenuti, sia perché risponde a quel bisogno di speranza che abita ancora la nostra Città.
L’attualità di quel magistero è data dalla persistenza di un clima di rassegnazione che a volte ci coglie di fronte ad una mole di problemi che ha bisogno, per essere superato, di una visione condivisa, fatta di impegno e di corresponsabilità, e da una carica ideale molto profonda. Sarebbe bene riascoltare quelle parole come rivolte a tutti, e non a singole categorie di persone, anche ai non credenti, che penso riconoscano in Papa Wojtyla un’autorità morale di statura internazionale.
In quegli anni Giovanni Paolo II aveva iniziato al santuario di Loreto un percorso con varie tappe, di cui Catania fece parte: la grande preghiera per l’Italia e con l’Italia. Era il modo con cui voleva aiutare il popolo italiano a recuperare una identità cristiana ed una passione al bene comune che erano state messe a dura prova dalla corruzione e, prima ancora, dall’insicurezza seminata dalla criminalità organizzata e dai gruppi di lotta sociale armata.
La famosa espressione «A tutti dico: state in piedi, concittadini della martire Agata, sappiate vincere il male con il bene. Colui che ha sconfitto il peccato e la morte è con voi», sono espressioni di un papa che invita a ritrovare la forza per quella che definisce «un’autentica riforma morale e sociale», nasce dall’invito a riscoprire nelle radici cristiane (san Paolo che passa dalla Sicilia e sant’Agata) le risorse morali per un rinnovamento sociale duraturo. Nei suoi discorsi il Papa fa riferimento alla cultura classica, in qualche modo sedimentata nella sensibilità siciliana: la concezione dell’uomo come essere religioso e dialogante, e il senso del destino che emerge nella tragedia greca. Il Papa rilegge questi aspetti alla luce della fede: quel dialogo che cambia la vita è la preghiera, e il destino non è una condizione ineluttabile dell’uomo, ma un progetto di vita che si realizza in Cristo. Infine invita a scoprire il segreto di sant’Agata, affidato ai coetanei della giovane santa, ossia la fede, che le fa dire «non è merito mio, se sono stata buona. È stato Gesù a farmi buona».
Le parole del Papa sono rivolte principalmente ai cristiani perché nella loro fede ritrovino la forza per rimettersi in piedi. Ma in una Città che ha un così grande numero di battezzati e devoti della Santa, c’è da chiedersi se la fede riesce a cambiare la vita, o cede ad un “fai da te” religioso che non riesce a incarnare il segreto della testimonianza di Sant’Agata. Non so se il credo religioso rimette tutti in piedi o lascia in ginocchio alcuni, come chi è affetto da dipendenze di ogni tipo (droga, alcool, gioco d’azzardo), chi si inchina alla mafia o al clientelismo politico, chi non si sente responsabile della crescita morale dei propri figli, o della cura di una città che è come destrutturata da persone indifferenti al bene di tutti, perché troppo concentrati su ciò che bene non è. Per questo, all’esame di coscienza sulla ricezione immediata delle parole di Giovanni Paolo II, si unisce il desiderio di riscoprirne l’attualità e comprendere che sono indirizzate anche a noi: sono le espressioni di un Papa, per giunta santo, che ha guardato negli occhi la nostra Città.
*Arcivescovo metropolita di Catania