L'INTERVENTO
I falsi presupposti da cui muove la separazione delle carriere
«Se il problema non esiste, perché procedere in una impegnativa e controversa riforma che comporta financo modifiche della Costituzione?»
In un articolo pubblicato su “L’Espresso” un avvocato cassazionista di grande esperienza, che gode la fiducia del Governo, dal quale è stato nominato esperto per la piattaforma penale nel Consiglio Europeo, si impegna ad illustrare le ragioni che giustificherebbero la riforma costituzionale relativa alla separazione dei ruoli dei magistrati giudicanti e requirenti. L’esordio non è dei migliori. Si legge nell’articolo che bisogna evitare che «il cittadino si allarmi all’idea che chi ti accusa possa, poi, giudicarti». Si tratta di un’affermazione che riferisce una circostanza non vera in quanto le norme del Codice di Procedura Penale impediscono un’evenienza del genere.
L’affermazione può definirsi fantasiosa, ove si consideri che le norme di procedure penale sono talmente rigorose da impedire che possa assumere la funzione giudicante nel merito anche il magistrato che ha disposto una mera proroga delle intercettazioni telefoniche. Nessun pericolo quindi per il cittadino-imputato sotto questo aspetto.
L’autore dell’articolo osserva che durante le indagini preliminari «i nostri Pm svolgono un ruolo assolutistico, quali unici incontrastati domini della fase processuale, residuando alla difesa il ruolo … di inevitabile sudditanza».
L’osservazione non coglie nel segno. Volendo dare per scontato il ruolo di preminenza del Pm e di «sudditanza del difensore nella fase delle indagini preliminari», non essendo questa la sede opportuna per contrastare tale affermazione ed essendo in realtà tutto molto discutibile, è agevole osservare che tale disparità non può che discendere dalle norme di procedura penale che disciplinano tale fase.
Se il Pm assume determinate iniziative che non sono consentite al difensore è chiaro che ciò discende dall’esistenza di una norma di procedura che l’autorizza. In caso contrario il difensore troverebbe facile gioco attivando gli idonei mezzi di impugnazione. È del tutto evidente che il passaggio del Pm a un ruolo diverso e autonomo da quello dei magistrati giudicanti non lo priverebbe del potere di applicare quella norma di procedura penale che, a dire dell’autore dell’articolo, lo privilegerebbe.
L’autore dell’articolo mette poi in evidenza che la funzione giurisdizionale si «è andata deteriorando nel tempo assumendo toni e modalità di esercizio incompatibili con il ruolo disegnato del legislatore». La censura riguarda quindi i «toni e modalità di esercizio della funzione». In pratica, quasi un problema di buone maniere.
Ma a questo punto è lecito chiedersi: perché la separazione delle carriere sarebbe il mezzo idoneo a modificare «i toni e le modalità di esercizio» in favore di condotte più idonee a consentire la funzione collaborativa del difensore? L’autore dell’articolo non fornisce alcuna spiegazione. È chiaro però che la risposta va nel senso opposto a quello auspicato dall’articolista. La separazione delle carriere, con un secondo Csm dedicato solo alla funzione requirente, rafforzerebbe la posizione dei Pm consapevoli di avere a loro tutela un organo di autogoverno composto, per la parte togata, solo da magistrati requirenti, e quindi da soggetti che hanno operato adottando quel medesimo modus operandi oggetto di contestazione.
Conclusivamente, la riforma sarebbe necessaria: per allontanare nei cittadini il timore che chi ha esercitato le funzioni di Pm possa diventare il giudice della controversia. Ma questo non è vero; per impedire che nella fase delle indagini preliminari il Pm possa avere una posizione privilegiata rispetto al difensore. Ma questo dipende esclusivamente dalle norme di procedura penale; per evitare che i Pm adoperino «toni e modalità di esercizio dell’azione penale» poco rispettose della figura del difensore. Ma la separazione non eliminerebbe di certo tale pericolo, perché come si è detto rafforzerebbe la posizione del Pm.
Lo stesso autore dell’articolo ammette che, dopo la riforma Cartabia, i trasferimenti da un ruolo all’altro sono precipitati, fino a raggiungere una percentuale di poco superiore all’uno per cento dell’intero organico della magistratura, e quindi «nei fatti le funzioni sono già distinte».
E allora, è lecito chiedersi: se il problema non esiste, perché procedere in una impegnativa e controversa riforma che comporta financo modifiche della Costituzione?
*Renato Papa è un magistrato a riposoCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA