Rifuggendo dalla tuttologia che è un virus subdolo e diffuso, la considerazione è persino banale, diciamo basica: no, quelle americane non sono elezioni da seguire distrattamente, seduti sul divano e sgranocchiando popcorn (cit.). Perché l’Election Day d’Oltreoceano è un bivio per il mondo intero, un di qua o di là che riguarda anche le province di qualsivoglia impero. Quindi anche noi. Ed è, comunque finirà, cartina tornasole della gravità della malattia che rende fragile anche «la più grande democrazia del mondo», com’è stata mitizzata quella statunitense, e con essa l’Occidente.
Una crisi che dà fiato al mondo altro. La parte per il tutto, rectius una grande parte per un tutto pericolosamente rimpicciolito da quelle potenze che non partecipano ai ridondanti G7, con i presunti Grandi che parlano a se stessi perché altri, forse, intendano.
In questo mondo scomposto, come si dice di un cannolo, gli Stati Uniti stanno dando vita allo spettacolo più pazzo della Terra, mostrando debolezza, pallori, cerotti, insomma tutti i sintomi della malattia di cui sopra. Con un immancabile Kennedy – sessant’anni dopo Jfk – che agita acque già mosse, e con le dinastie democratiche – gli Obama, i Clinton – che restano prepotentemente sulla scena (il ras campano De Luca in fondo è un dilettante). Repubblicani e democratici mostrano una incapacità o una riluttanza al cambiamento, che li ha portati a questa doppia forzatura, comunque vada una sconfitta per entrambi: di qua un partito che non ha saputo liberarsi da Trump, di là un altro che paga il mancato scouting per una leadership davvero nuova e convincente.
Così l’elettore americano medio – che non abita nella cosmopolita New York, ma nell’Iowa – è chiamato a scegliere tra una candidata democratica senza carisma, “inventata” strada facendo per l’improponibilità del presidente uscente, supportata fors’anche controvoglia per evitare un guaio peggiore. Ovvero: alle urne turandosi il naso, come ebbe a dire Indro Montanelli nel piccolo orticello italiano a proposito della mai amata Dc nel 1976.
Perché l’alternativa è un bizzarro anziano senza freni e privo di schemi che non siano legati all’iperbole spaccatutto. E siccome parliamo degli Stati Uniti e non di chissà quale sperduto atollo da cercare sul mappamondo, ecco che i timori si fanno più forti. A molti appare già incredibile che Donald Trump possa riprovare ad entrare alla Casa Bianca, dopo esserci riuscito due elezioni fa e perso la scorsa volta contro un “giovane” Biden. Non è un’ambizione azzardata se anche gli ultimi sondaggi parlano di partita incertissima e di una conseguente possibile lunga indeterminatezza del risultato, alla maniera della sfida Bush-Gore nel 2000. Solo che quella volta il bilico riguardava un solido democratico, appunto Al Gore, che alla fine ammise la sconfitta pure di far uscire il suo Paese da uno stallo sfiancante. Non potrebbe mai accadere con Trump e il rimando va all’assalto di Capitol Hill, gennaio 2021, confine fino ad allora buono per una sceneggiatura holliwodiana. Invece no.
L’ex presidente è una mina vagante (sui conflitti in corso, sulle opzioni militari, sui diritti, sulle alleanze, sulla transizione green), una miccia accesa dal barnum dei plurimiliardari come Elon Musk e da altri ordigni, già esplosi o solo potenziali, plasticamente messi uno accanto all’altro in grafica dal “Corriere della Sera” di ieri: pro Trump non solo Putin e Orban, ma anche Netanyahu e il monarca saudita bin Salman, l’indiano Modi e l’argentino Milei, mentre la Cina è come sempre affacciata alla sua finestra, (pre)occupata soltanto a difendersi dal suprematismo in senso autarchico del tycoon, poi veda l’Occidente cosa fare.
È il mondo altro che pressa, minaccia, cresce, decide. Di fronte al quale servirebbe un’Europa forte che oggi manca, essendo “semplicemente” intergovernativa piuttosto che davvero federata. Ci sono posizioni nette in favore di Harris (Francia, Germania, Spagna) ma anche silenzi eloquenti, assordanti e imbarazzati (qual è la posizione della premier italiana?).
No, non saranno serate rilassate, da divano e popcorn, neanche nella Sicilia dove, come nell’immediato Dopoguerra abitato proprio da soldati americani, si riscopre una sorta di tessera annonaria per rifornirsi d’acqua.