Non avrei mai immaginato di trovarmi vicino a una guerra, specialmente così difficile da comprendere come questa. Eppure, ho studiato conflitti per buona parte della mia vita ma viverli sulla pelle, sentirli addosso, a 23 anni sarà difficile tornare ai normali ambienti familiari, circondato dalla quotidianità spensierata. Mi si chiede di raccontare quello che stiamo facendo, ma ho davvero dubbi che questo possa essere compreso nella sua intensità e durezza. Siamo accanto alla sofferenza e alla distruzione, e per questo occorre grande attenzione a come vengono valutati i fatti nella loro cruda oggettività.
Scrivo queste righe mentre ritorno lì dove sono già stato la settimana scorsa e dove starò tutto il prossimo mese: a Medyka, nella contea di Przemyśl, nel voivodato dei Subcarpazi, al confine sud est tra Ucraina e Polonia. Andiamo ad aiutare con Hope chi ha perso tutto ciò che aveva e cerca una via di fuga dal terrore, tra poco accompagneremo un convoglio di equipaggiamento medico fino all’ospedale di Leopoli. Hope è un’organizzazione non profit, laica e indipendente, che aiuta bambini e comunità in difficoltà in Italia e nel mondo. È stata fondata nel 2006 da Elena Fazzini e si dedica con professionisti altamente specializzati a mettere al servizio della solidarietà, passione, impegno e competenze, intervenendo in situazioni di disagio ed emergenza per dare ai bambini e alle comunità una concreta possibilità di un futuro migliore. Con noi ci sarà il prof. Giacomo Grasselli, professore ordinario di Anestesiologia e Terapia Intensiva dell’Università di Milano e responsabile della Rianimazione del Policlinico. Poi, io e il mio caro amico Ryan, studente di Chicago con me in Olanda, torneremo al confine come project manager per gestire l’assistenza ai rifugiati e la logistica umanitaria.
Non sono il tipico operatore umanitario. Non ho frequentato la cooperazione internazionale, lo sviluppo o la gestione delle crisi dei profughi. Dal 2017 studio alla Leiden Universiteit; il mio primo anno di relazioni internazionali mi ha creato le fondamenta di scienze politiche su cui ho costruito la mia formazione. Poi mi sono trasferito al nuovissimo corso di “Security Studies”, una delle uniche due lauree triennali in tutta Europa, un sottocampo delle relazioni internazionali, incentrato su geopolitica, conflitti armati, antiterrorismo e sicurezza nazionale. Adesso partecipo al master in gestione di crisi e sicurezza che sto provando a completare in contemporanea ai miei sopraggiunti impegni al confine ucraino.
Il motivo per cui ho scelto di mettermi in prima linea è perché in quest’area serve gente che sappia gestire gli aiuti nel caos di un’emergenza umanitaria senza precedenti e sento di dover vivere questa esperienza.
Da ciò che ascolto e leggo provenire dall’Italia, avverto la mancanza di una reale consapevolezza sulla natura della Russia e del suo intricato rapporto con la disinformazione. Alla Leiden Universiteit ho anche completato un minor in “intelligence studies” in cui abbiano studiato spionaggio e intelligence dalla Guerra Fredda fino ad oggi e il Kgb, con particolare attenzione al Primo Direttorato Centrale, responsabile delle operazioni all’estero. Tra spie doppiogiochiste come Hanssen e Ames o gli “illegali” del “Direttorato S”, la mia attenzione si è presto focalizzata sulle “active measures” del “Servizio A”. Le active measures sono operazioni di guerra politica basate su disinformazione, falsificazione di documenti ufficiali e propaganda subdola.
Il termine disinformazione viene proprio dalla lingua russa e trova origini negli anni Venti del ventesimo secolo, quando la “Cheka” di Dzerzhinsky conduceva “operazione Trust”, creando una finta rete di anti-bolscevichi per identificare e cacciare gli zaristi all'estero. Le active measures sono poi diventate lo strumento principale del Kgb; ne abbiamo avuto echi quando si disse che l'Aids era stato creato dalla Cia per sterminare gli afroamericani o quando le brigate rosse sembravano finanziate dal Pentagono come pretesto per invadere l’Europa (in un certo senso ne parlò anche durante il rapimento Moro). Adesso che l’internet e il cyberspazio hanno permesso di aumentare la velocità e gittata della disinformazione, il mondo dei social e dell’informazione si fa spesso condizionare dalle bugie del Cremlino, ignorando la sua lunga storia di guerra informativa.
Non dobbiamo rimanere sorpresi dei massacri a Bucha: le truppe russe, stupidamente convinte di prendere Kiev in pochi giorni, si sono date da fare per condurre controguerriglia nelle aree controllate. L'abbiamo visto in Siria e in Cecenia; ai russi non interessa, come disse il generale inglese Temper, “vincere cuori e menti” della popolazione, perché sono due i modi per evitare una guerriglia: ottenere il supporto dei locali, oppure massacrarli nella speranza di sedare ogni volontà di resistenza. I russi ancora una volta hanno optato per la seconda. E nonostante le immagini dei satelliti Maxar, le testimonianze dei becchini locali e tutti gli strumenti di verifica indipendenti offerti da internet, ancora si dibatte su chi dica la verità: il blocco democratico o la Federazione Russa?
Nei prossimi giorni ci proverò a raccontare dalle colonne di questo giornale l’esperienza umanitaria degli aiuti che qui arrivano da ogni parte del mondo occidentale e della brutalità del conflitto, e cercherò di farlo con la conoscenza delle distorsioni cognitive, delle frizioni e degli attriti della natura politica della guerra. Senza partigianerie, con gli occhi di un gruppo di ragazzi senza barriere geografiche che hanno sospeso gli studi per attraversare il confronto con i fatti e la realtà. Che hanno la consapevolezza che da qui, e in questi mesi, cambierà per sempre ciò che sappiamo e abbiamo imparato sulla pace e sulla democrazia.
manfredi.magnano@gmail.com