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L'intervento

Della Chiesa e della cortigianeria

Cosa, dunque, c’è in comune tra la «frociaggine» goffamente chiamata in causa dal Papa e la presunzione padronale del vescovo nisseno che ha impressionato negativamente Cariola e non pochi uditori di quelle strane dichiarazioni sul paradossale diritto di bastonare una sposa a motivo dell’amore che si nutrirebbe per lei?

Di Massimo Naro |

Quelle trattate nell’articolo apparso mercoledì su questa testata, in prima pagina, a firma del prof. Agatino Cariola (“Il peso delle parole, dal Vaticano a Caltanissetta”), sono due «vicende» diverse, come opportunamente l’autore di quell’interessante pezzo avverte. In ogni caso, egli si dimostra davvero abile a cogliere dall’una l’occasione per riprendere criticamente l’altra.

Riguardo alla prima – l’ormai nota espressione equivoca usata dal Papa durante una riunione con la Cei sui criteri di discernimento da applicare nei seminari – sarebbe fuori luogo formulare sentenze inappellabili: non disponiamo nel dettaglio delle frasi che facevano da contesto “privato” alla famigerata parola rivelata non a caso da un web-magazine scandalistico come Dagospia, non conosciamo nemmeno il tono con cui il Papa l’ha pronunciata e, di contro, abbiamo le sue tempestive e accorate scuse, chieste alle persone e alle associazioni che se ne sono sentite offese. Possiamo semmai convenire che si tratta di una questione antropologico-culturale, con rilevanti risvolti linguistici e comunicativi, ma le cui implicazioni peculiarmente biblico-teologiche spesso, nella nostra cultura tardo-moderna, sono perdute di vista.

Voglio dire che il tema dell’omosessualità, o delle identità di genere non binarie, non dovrebbe essere dibattuto – almeno da parte degli osservatori cristiani – solo ponendosi in dialogica sintonia con la cultura corrente, ma anche mantenendosi in continuità ermeneutica con il messaggio biblico, a partire dal genesiaco «maschio e femmina Dio li creò».

La descrizione biblica dell’atto creativo di Dio fa dell’uomo e della donna un merismo vivente, ossia una totalità tenuta insieme in una postura di reciprocità relazionale. Quell’archetipico faccia a faccia configura frontalmente il rapporto interpersonale tra uomo e donna, imprimendogli un carattere creaturale specificamente agapico e – in definitiva – trinitario (nell’Agape divina, il Padre sta faccia a faccia col Figlio suo e questa loro spirituale frontalità li costituisce come una «cosa sola», si legge poi nel Vangelo di Giovanni). Quanta e quale coerenza con tutto ciò dovrebbe sussistere (e me lo chiedo non retoricamente, sia in prospettiva omo che eterosessuale) nell’esercizio di un ministero ecclesiale come quello dei preti, che serve anche a ricordare proprio un tale messaggio biblico?

Riguardo alla questione del vescovo nisseno, invece, disponiamo dell’esatta sequenza delle sue parole, ne conosciamo il contesto “pubblico”, possiamo persino recuperare – nella registrazione audio-visiva messa on line – il tono con cui quelle parole sono state proferite. Quel che importa maggiormente è che possiamo e dobbiamo sottolineare che si tratta di una questione ecclesiologica: vale a dire che c’è in gioco la visione di Chiesa che il vescovo ha e intende realizzare. Una questione molto meno socialmente e mediaticamente scandalistica dell’altra, ma molto più decisiva per la vita ecclesiale.

Cosa, dunque, c’è in comune tra la «frociaggine» goffamente chiamata in causa dal Papa e la presunzione padronale del vescovo nisseno che ha impressionato negativamente Cariola e non pochi uditori di quelle strane dichiarazioni sul paradossale diritto di bastonare una sposa a motivo dell’amore che si nutrirebbe per lei?

La prima, in realtà, è parola che, pronunciata da un ecclesiastico d’alto rango che discute con altri ecclesiastici, non necessariamente ha la medesima accezione che essa può far registrare nel variegato parlato comune, quello dei film, dei giornali e delle offese volgari che gli ubriachi – refrattari al politically correct – si scambiano quando litigano per strada o al bar. Reputo che quella parola, dal suono pur molto brutto e particolarmente stridente sulle labbra di un Papa, stigmatizzi – quando ricorre in una discussione come quella intrattenuta a porte chiuse dal pontefice con i vescovi italiani – l’isterica tendenza a fare comunella, ad arroccarsi subdolamente in lobby, mettendosi al riparo da ogni censura e disciplina, diventando sodali di una fazione tramite cui si può essere abusivamente arbitri nell’interpretare le regole e i regolamenti che valgono per tutti tranne per chi riesce a manovrare il potere.

Quel termine, per niente bello, in ambito ecclesiastico esprime non tanto un giudizio su un modo di vivere la sessualità quanto anche e soprattutto l’insopportabile arroganza clericale di chi arriva a comandare sugli altri solo in virtù della propria untuosità, della propria mellifluità, del proprio servilismo, della propria cortigianeria. E uso quest’ultimo termine volutamente, considerandolo un probabile sinonimo della parola sfuggita di bocca al Papa: la cortigianeria, per sua natura, è l’attitudine tornacontistica e camaleontica ad acclimatarsi nella corte di un “monarca”, anche a costo di svendere la propria coscienza, la propria intelligenza, le proprie energie, le proprie passioni (fatte salve quelle per i merletti, i pizzi e i tricorni).

Se, così ragionando, colgo nel segno e indovino l’esatto significato del termine involontariamente risuonato nel frangente infelice di cui è stato protagonista il Papa, allora è agevole intuire gli echi molteplici che quell’espressione evidentemente cacofona rimbalza nella mentalità e nel comportamento di chi pretende di possedere una diocesi e, in essa, tutte le persone che la costituiscono quale soggetto libero e responsabile, animato dallo Spirito del Cristo.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA