Philip Roth lo diceva spesso, con quel sorriso sghembo: che sciagura mettere in un romanzo amici o familiari, anche se mascherati, o travestiti da bei personaggi. La storia è piena di scrittrici e scrittori denunciati da parenti, come lui, o messi al bando da intere famiglie in quanto offese, mortificate, o denudate da una penna troppo cruda, o spregiudicata e maldicente, irrispettosa di segreti e fatti personali.
È libertà creativa, quella di chi ne scrive, o sconfinamento di penna, abuso di memoria, appropriazione abusiva ed esibita del privato altrui? Per noi romanzieri la domanda è sempre aperta e tagliente come una forbice da giardinaggio. E in tempi di Cancel culture ancora di più, col rischio di potature selvagge e tagli insani. Ma si tratta, appunto, di romanzi.
E se la violazione di segreti, e il racconto di storie vissute (giustamente) in segretezza, si svolgono invece in un’autobiografia, e l’autrice è un magistrato e personaggio noto? E se la rivelazione coinvolge come protagonista un magistrato celebre e amato, un uomo schivo che sarà ucciso dalla mafia?
Ilda Boccassini, scrivendo un libro di “verità scomode e confessioni coraggiose” ha scelto di divulgare anche questa esile liaison dangereuse con Giovanni Falcone, un legame appassionato e insieme lucido, tenero ma sorvegliato e consapevole (i due erano entrambi sposati), forse per quell’urgenza della memoria che al culmine di una vita vuole liberarsi dei grumi, passare al setaccio i ricordi, filtrare il bello che c’è stato e metterlo in serbo. Per lei sarà stato certamente liberatorio e rigenerante, perché scrivere è mettere ordine nel caos, come diceva Calvino.
Ma per la memoria di Falcone, dei suoi familiari, di cittadini legati al suo ricordo, innamorati del suo rigore e dalla sua fermezza? Perché raccontarne la debolezza, quell’abbandono fragile e sognante – legittimo e naturale, ci mancherebbe, non si tratta affatto di moralismo – sulla poltrona d’aereo, fra tremori e intimità vietate, quando lui non può più dire la sua, e c’è una sola verità sui fatti, quella dell’autrice? È questo il punto, fuori da ogni bigottismo: possiamo svelare un segreto – di nessuna rilevanza pubblica o utilità sociale – di una persona che non c’è più?
Ha ragione Maria Falcone, e lo ha ben detto, con semplicità e misura, ieri su questo giornale. Si tratta di pudore. Di rispetto e cura della memoria degli assenti. Di amore, anche. Mai come oggi. Perché il modo migliore di conservarlo in noi, se c’è stato, è difenderlo dal voyeurismo e dal consumo dei media, dall’ingordigia degli altri e da ogni – fatale – volgarità. Dalla banalità, dai pettegolezzi, dal male, da ogni usura. Se c’è stato, l’amore chiede e merita silenzio, mistero.