L’Europa delle democrazie (mature, compiute, ammaccate, incerte, taroccate, insomma tutte insieme) martedì a Strasburgo celebrerà il rito dell’insediamento del Parlamento, 720 seggi sui cui si siederanno gli eletti della tornata del mese scorso. Al netto delle trattative in corso per dare un governo a questa Europa unita almeno formalmente nei vari organi e nella sacralità dell’Aula, quello dell’insediamento di un Parlamento, come pure di un qualsiasi Consiglio comunale, è il momento più importante della vita democratica perché ne dà il senso attraverso la rappresentatività che gli eletti hanno ricevuto dai “loro” elettori. Sarà una festa, tra inni nazionali e colori, i colori delle bandiere dei 27 che sventolano fuori Palazzo d’Europa. Una festa di democrazia.
Il punto su cui vogliamo insistere non a caso all’antivigilia del “battesimo” dell’Aula, è proprio questo: che democrazia è quella che porta alle urne meno del 15% degli aventi diritto al voto? L’interrogativo riguarda alcune sezioni della Catania popolare e delle periferie ma è lo stesso che tocca tante altre città siciliane in cui l’esercizio del diritto-dovere di esprimere la propria scelta mettendo un segno su una scheda assomiglia a una traduzione dall’italiano all’aramaico antico.
Sono gli sconosciuti all’anagrafe elettorale perché della tessera da presentare al seggio non sanno cosa farsene, sfiduciati da tutto e privi di tanto. Anzi no. Vanno a votare soltanto alle amministrative, forse alle Regionali, perché è in queste occasioni che il mercato del pacco di pasta, del buono benzina, magari della promessa di un lavoro, spalanca le proprie porte.
In Italia l’esercizio più in voga a sinistra come a destra è guardare alla Francia, magari dimenticando di osservare come un Paese si pone di fronte al momento più solenne della vita democratica. Non importa, qui e ora, il risultato del primo e del secondo turno delle elezioni anticipate, rileva come si sono sviluppate: con un’affluenza, ai ballottaggi, pari a quelle del secolo scorso, quando in campo c’erano forti schieramenti orgogliosamente contrapposti e nessuna deriva populista e quindi qualunquista. Una mobilitazione legittimante l’esito, che in quale maniera – e al riparo da confusioni cromatiche tra rosso e nero – ha ricordato l’Italia del ’48, il “Dio ti guarda nell’urna” che campeggiava fuori dalle parrocchie per spaventare e indirizzare gli elettori. Oggi non è tempo di Peppone e don Camillo e nei “quartieri” non ci sono più le sezioni di partito. E con i corpi intermedi indeboliti, anche per proprie responsabilità, proliferano i “cacicchi” del consenso e i Caf del disbrigo pratiche, alcuni proprio di tutte le pratiche. A contrastarli è rimasto l’associazionismo dal basso, il più vero. Così le urne vengono disertate quando il voto è più “ideologico” e meno legato alle dinamiche locali. Se si trova più comodo esibirsi e litigare sui massimi sistemi anziché impegnarsi ogni giorno per recuperare pezzi di città, se accade tutto questo, la democrazia è malata, pericolosamente affetta dal virus trasversale dello scollamento tra strada e Palazzo. Ricordiamocelo adesso che si entra nell’Aula di Strasburgo, se lo ricordino soprattutto gli otto eurodeputati siciliani che abbiamo mandato in Europa, per dare risposte a chi l’8 e il 9 giugno ha trovato chiuso anche lo sportello “amico”. Ascoltiamo le urla dal silenzio delle urne.