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Torna la caccia al gas naturale nel mare di Sicilia: dove si può tornare a perforare

Gli effetti del nuovo Dl. Superato il Piano dell’ex ministro Cingolani, già sconfessato dal Tar Lazio, il governo riapre alle ricerche in mare e a terra. I permessi ora vanno aggiornati

Di Giambattista Pepi |

La tempistica dei contenziosi e l’orologio del quadrante mondiale rischiano di far procedere l’Italia a zig zag nel peraltro complesso processo di transizione ecologica e di diversificazione energetica e di non fare rispettare gli impegni reiterati di operare in armonia con la legislazione europea per contrastare il cambiamento climatico riducendo il ricorso alle fonti energetiche fossili per produrre energia ed aumentando quello sulle rinnovabili.

Permessi scongelati

Il decreto legge Energia, approvato il 10 ottobre dal Consiglio dei Ministri che il Parlamento dovrà convertire in legge entro il prossimo 16 dicembre, ha sulla carta “scongelato” 29 permessi di esplorazione di giacimenti di idrocarburi (11 a mare e 18 sulla terraferma) che erano stati abrogati dal “Pitesai”, acronimo di Piano per la Transizione energetica sostenibile delle Aree idonee – Pitesai (Legge 12 del 2019). Piano che fu poi approvato con decreto nel 2021 dall’allora ministro Cingolani e che è stato di fatto affossato dal Tar Lazio, nel frattempo intervenuto sui ricorsi presentati dalle società che avevano richiesto i permessi. Iniziative che avevano preso vigore quando scoppiò la crisi del gas russo e il premier Draghi spinse per dare fondo a tutte le risorse energetiche nazionali; da qui la corsa alle ricerche. Poi il Piano che era stato scritto dai burocrati e che Cingolani emanò riavvolse il nastro rendendo quelle aree non più “trivellabili” (tranne quelle dei giacimenti di “Argo” e “Cassiopea”, nello Stretto di Sicilia, perché i lavori erano già avviati), ma aprendo la stagione dei contenziosi.

Il bollettino degli idrocarburi

Adesso si riparte dal dl Energia, avvertendo che le aree già individuate tornano a essere “soltanto” perforabili, perché le eventuali trivellazioni passano da singoli procedimenti autorizzativi da aggiornare.Questa la cornice tratteggiata anche dal Bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle geo-risorse del ministero delle Imprese e del Made in Italy, all’interno della quale si muove il Coordinamento nazionale No Triv che ha presentato nei giorni scorsi una denuncia circostanziata che lascia immaginare un’altra stagione di contenziosi.In Sicilia i permessi che potrebbero essere “scongelati” riguardano l’offshore nel Canale di Sicilia. In particolare, il permesso C.R146 rilasciato alla compagnia Northern Petroleum del Regno Unito che opererà nella Zona C e G.R13. AG a beneficio di Eni (60%) e Energean Italy (40%) che opererà nella Zona C e G. Per intenderci, al largo del Comune di Licata. A cavallo di questi due permessi ci sono i già citati giacimenti “Argo” e “Cassiopea” avviati alla produzione dall’Eni nella prima metà di quest’anno.Gli altri effetti dell’abrogazione del Pitesai e del suo impatto sui titoli dell’offshore nel Canale di Sicilia riguardano la concessione “C.C1.AG”, ridotta di 48,24 kmq che ora torna nella piena disponibilità di Eni. Originariamente, secondo il ministero della Sicurezza energetica, ricadeva in area non idonea. Secondo la normativa abrogata, le attività estrattive sarebbero proseguite sino alla scadenza del titolo senza possibilità di proroga. Ma con il DL Energia, se sarà convertito in legge, invece, le attività proseguiranno fino ad esaurimento del giacimento.

La scure dal Tar

Da febbraio a giugno di quest’anno il Tar del Lazio ha bocciato il Pitesai con 13 sentenze di merito, accogliendo i ricorsi dei maggiori operatori upstream in Italia: da Eni a Energean, da Shell a TotalEnergies fino a Rockhopper. Il governo ha fatto ricorso forse perché convinto di risparmiare sui contenziosi e aprendo col Dl Energia questa nuova fase. «L’annullamento giurisdizionale del Pitesai e l’abrogazione, per effetto dell’articolo in commento, delle disposizioni che ne hanno previsto l’adozione – si legge nella relazione che accompagna il provvedimento normativo – dovrebbero fare venir meno anche alcune richieste di indennizzo avanzate dagli operatori dinanzi al giudice amministrativo per danni».Tra le compagnie che beneficerebbero della nuova norma ci sono Eni e Total, con progetti che coinvolgono le acque della zona A, C, D ed F. Praticamente si tratta di quasi tutta la costa che corre dal Veneto alla Sicilia. Sulla terraferma, invece, le trivelle tornerebbero a pompare in Abruzzo, Campania, Basilicata, Emilia-Romagna, Lazio, Lombardia e Molise. L’Eni allo stato è titolare da sola o in compagnia di 13 permessi a trivellare, la francese Total di tre come pure la britannica Northern Petroleum. Ma ci sono anche Rockhopper, che oltre alle Falkland (arcipelago in Argentina) guarda anche al Centro Italia, o la Global Med, californiana interessata al Mar Jonio. Gli altri nomi del mondo petrolifero presenti in questa prima lista sono Energean, Apennine, Irminio, Lumax, Po Valley.

Non solo offshore

In Sicilia, oltre all’offshore, di cui abbiamo detto, si potrebbe operare anche sulla terraferma. Con i decreti assessoriali del 5 e del 28 febbraio 2019, la Regione siciliana aveva autorizzato la realizzazione di tre pozzi esplorativi nell’area interessata dal permesso di ricerca “Fiume Tellaro” e rilasciato un nuovo permesso di ricerca “Case la Rocca”, dando così attuazione alla legge regionale 14 ed al protocollo sottoscritto nel 2014 da Mise, Eni, Regione siciliana, Comune di Gela e altri.L’altra nota dolente del ritorno di interesse per la ricerca di gas e petrolio è costituita dalla riformulazione del finora inefficace gas release, che, a determinate condizioni, avrà come effetto di trascinamento il venire meno del divieto, risalente al 2006, di cercare ed estrarre gas a meno di 12 miglia marine dalle linee di costa e dal perimetro delle aree naturali protette, potendo le compagnie spingersi fino alla distanza di 9 miglia marine.Interpellata in merito a questa ulteriore prospettiva di sviluppo degli idrocarburi, Assorisorse, l’associazione confindustriale del mondo estrattivo, non conferma e non smentisce: «La mappatura è complicata» dice il direttore generale Andrea Ketoff, che ribadisce: «Il Pitesai era una roba talebana che non serviva né al Paese, né all’industria».

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