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L'INTERVISTA

Riecco “l’uomo del ponte”, Massimo Ponzellini: «Sarà la leva di tutte le altre infrastutture, compresa l’Alta velocità»

Il presidente onorario della Bei traccia gli scenari per il Paese «Il Pnrr non  sia avulso dal contesto». «Gli errori dei siciliani sono gli stessi degli italiani»

Di Elena Giordano |

Ponte sullo Stretto e Pnrr, il 2023 dovrebbe essere – il condizionale è d’obbligo – l’anno della svolta. La realizzazione dell’infrastruttura, che andrà a congiungere la Sicilia alla penisola, è stata infatti da pochi giorni pubblicata in Gazzetta Ufficiale ed è “opera prioritaria” per legge dello Stato. Il Pnrr, invece, è già avanti, i fondi vanno spesi, rispettando delle scadenze molto rigorose. Massimo Ponzellini, presidente onorario di Bei, la Banca Europea degli Investimenti, in Sicilia per una breve vacanza, cerca di analizzarne gli scenari. 

Presidente, lei ha vissuto in pieno tutti i cambiamenti di questi ultimi 50 anni di storia economica finanziaria del nostro Paese. Da osservatore obbiettivo, dunque, può affrontare con rigore analitico l’annoso problema del divario Nord-Sud. 

«Sicuramente il divario esiste e, purtroppo negli anni, è aumentato invece di diminuire. Le mancanze principali sono state due: la mancanza di un piano serio di infrastrutture e l’assenza di un programma serio di formazione delle persone e dei meccanismi per mantenerle nel Mezzogiorno. Quindi, non solo non ci sono state le infrastrutture e la formazione, ma i giovani, quelli che ci sono, sono andati via e il Mezzogiorno è rimasto senza possibilità di crescere. E quando i ragazzi vanno via e fanno famiglia altrove, è una generazione persa». 

Il Pnrr è assimilabile al Piano Marshall del 1947, con uno stanziamento di circa 14 miliardi di dollari da spendere in quattro anni. Ritiene che questa sia l’ultima occasione per il rilancio del Mezzogiorno d’Italia?

«Non esistono, per una realtà come il Mezzogiorno, che da tremila anni produce intelligenza, cultura, arte e quant'altro, ultime occasioni. Il Mezzogiorno non avrà mai un'ultima occasione, ha uno standing tale che esiste a prescindere dal fatto che gli facciano le strade, le scuole, le autostrade. Certamente, bisognerebbe non lasciare troppo abbandonata quest'area non del Paese, ma del Mediterraneo. Perché, vede, i Paesi che si affacciano su questo mare sono tre, la Turchia, la Grecia e Mezzogiorno. Non l'Italia, che è un concetto diverso. Ecco perché non esiste l'ultima occasione, diciamo che è una delle tre più importanti che si è presentata negli ultimi cinquant’anni. Prima il piano Marshall, che è stata una scommessa vinta perché vi era un concetto importante che dominava l'Italia: bisognava ricostruire quello che era stato un grande Paese, l’Italia metteva delle strutture ad hoc per la ricostruzione. L'Iri, ad esempio, era l'istituto per la Ricostruzione Industriale, l'Eni era l'Ente Nazionale degli Idrocarburi e così via». 

Cos’è cambiato? 

«Oggi, quelli che abbiamo, controllano, gestiscono, si spartiscono il potere, fanno annunci, ma non ricostruiscono, non hanno capacità progettuale, capacità ideative, non hanno confidenza nel sistema, non conoscono le realtà di cui parlano. Sono avulsi, parlano di altre cose». 

Qual è stata la seconda occasione?

«Un Piano che non viene mai citato perché fu un flop completo, ma era stato ideato bene, quello del ministro Salverino De Vito, voluto da De Mita e Misasi. Questo piano prevedeva 42 miliardi in cinque anni e c'era dentro il Ponte, tutto. Fu su quello che fu costituita la società per il ponte sullo Stretto di Messina, che vennero fatte le grandi cose, c'era dentro il rifacimento di tutto il sistema delle acque del Mezzogiorno, la privatizzazione dell'acquedotto pugliese, tutta la catena alimentare della Sme, una Gioia Tauro diversa, la ricostruzione delle Ferrovie del sud. Purtroppo, non fu attuato perché era fortemente targato democristiano – allora la politica contava – e perché era un piano che tendeva a minimizzare alcune iniziative importanti come quella delle autostrade, che erano in altre mani, aveva i nemici del grande capitale». 

In particolare chi gli fu ostile?

«Mediobanca, per esempio, non ci credeva, le Generali non investivano perché per loro, in quegli anni, era molto più facile fare affari con la grande finanza del nord, erano cominciate a balzare all'orizzonte le prime privatizzazioni. In realtà, quello che doveva essere un programma di liberalizzazione, fu trasformato in una svendita ai gruppi privati del nord dei migliori asset dello Stato. Guardiamo cosa è successo alla Telecom/Tim, che era la terza società per le telecomunicazioni del mondo, il governo oggi sta facendo un programma di salvataggio industriale per far fronte a 30 miliardi di euro di debiti. Una roba pazzesca, questi sono i privati che abbiamo preso, erano speculatori». 

Ci dica del Pnrr…

«La terza occasione è quella del Pnrr che, però, è stato condizionato a una serie di riforme, quella della giustizia, dei diritti fallimentari, dei sistemi degli appalti, tutta una serie cose che si devono fare e sono state, in qualche modo, approvate a vario livello. Che siano poi entrate nella mentalità dello Stato ma, soprattutto, che abbiano garantito a chi le deve gestire la possibilità di rimanere al di fuori dei meccanismi vendicativi della burocrazia, della magistratura, delle invidie dei concorrenti industriali o finanziari, non è certo».

Lei non sembra ottimista… 

«Bisogna tenere presente una serie di elementi: il primo è che il Pnrr ha successo solo ed unicamente nella misura in cui sia certa e sicura la parte infrastrutturale di questo piano, perché se non è sicura questa parte, tutto il resto diventano episodi generici; il secondo è che, mentre ci sono investimenti che devono rimanere permanentemente o, perlomeno, per parecchi anni in mani pubbliche, il Pnrr deve prevedere una parte del piano che promuove, realizza e dà in gestione al privato. Questa è la parte fondamentale. Allora come si fa? Bisogna tenere presenti gli industriali – e in Italia gli industriali ci sono – e le banche. Anche queste in Italia ci sono, ma sono legate a tutta una serie di criteri e di obblighi dettati dalla Banca Centrale Europea, poi fatti propri dalla Banca d'Italia. Il Pnrr dice che bisogna investire con la mentalità di lungo termine, la Bce, invece, dice accorciamo i prestiti perché i tassi non si sa dove andranno. Dunque, secondo me lo Stato, attraverso la Cassa Depositi e Prestiti o con strumenti appositi, deve affrontare questo problema oltre che il fatto che non c'è possibilità per le banche di dare soldi ai giovani». 

In che senso?

«Nel senso che, se va un ragazzo di vent'anni che vuole far partire un'azienda gli chiedono: qual è il tuo track record? Parola magica che per lui non esiste, quindi non si può finanziare. Allora se pensiamo che le buone idee si sposino automaticamente con la proprietà di una casa da ipotecare non si va da nessuna parte. Questo Pnrr parte con il problema che non ha, in questo momento, sintonia con i criteri generali di affidamento del credito». 

Scoraggiante…

«Penso che bisognerà avere delle procedure diverse, senza dimenticare coloro che danno il via e spingono, che sono i vari ministeri. Questi danno il via sempre con l'ottica di controllo, di esercitare il potere, di fare nomine, di avere e dare il via libera a degli appalti, ma senza nessun potere alle idee o possibilità d’ideazione di un programma di questa dimensione, che se non contiene almeno il venti per cento di sogni, è già sbagliato».

In funzione di queste risorse economiche del Pnrr, a cui si aggiungono i fondi strutturali europei, quale ruolo deve assumersi la Sicilia in modo particolare?

«I ruoli delle regioni sono già stabiliti dalle procedure quindi, la Sicilia, non si deve assumere nessun nuovo compito, deve riempire quelle che sono le funzioni previste. In più, l’Isola è autonoma e quindi ha maggiore responsabilità in questo senso. Nella realtà dei fatti è che le regioni fanno solo due cose: la prima è di farsi carico della sanità e la seconda è di frignare. Le regioni non gridano, frignano, non urlano, si lamentano quando, invece, hanno due grandi funzioni e cioè di proporre e di pretendere». 

La Sicilia non pretende abbastanza?

«Senza i voti della regione siciliana questo governo non sarebbe in carica. Cosa ha preteso la Sicilia? Musumeci al Ministero del Mare, ma io credo che siamo matti! Musumeci è una bravissima persona, il Ministero del Mare è un'idea eccezionale, però non si possono esaurire qui le vostre pretese. Tutto ciò è aggravato dal fatto che nella storia di questo Paese se uno dichiarava di essere di Fratelli d'Italia era un ghettizzato». 

Ponte sullo Stretto: da troppo tempo si discute di questo ponte senza analizzare, in maniera obiettiva, le carenze infrastrutturali che abbiamo in Sicilia. 

«Dunque, per quanto riguarda il Ponte, sono così vecchio che quando ero Direttore strategia e finanza dell'Iri costituimmo la Società per lo Stretto, quando ero alla Banca Europea degli Investimenti, stabilii i primi finanziamenti e quando ero alla Impregilo, questa vinse la gara per farlo, quindi lei sfonda una porta aperta. Quali sono le ragioni per cui il ponte è importante? Beh, esiste una ragione di dignità infrastrutturale del Paese, non esiste al mondo nessun tratto d'acqua così breve che separa due blocchi di persone così importanti che non abbia un ponte. Voglio dire, a Montelupo Fiorentino hanno fatto un ponte perché Bitossi – il campione delle biciclette – da casa sua non facesse il giro basso, ma potesse direttamente andare alla stazione attraverso il ponte. Capite? Hanno fatto ponti da 30-40 km, quindi il problema non sono le difficoltà, il problema è ideologico». 

Forse c’è anche un problema di costi-benefici?

«Quando si parla della redditività di un'opera pubblica io faccio sempre due esempi, la tangenziale di Parigi sicuramente rende una tombola, esiste invece un'opera che con le proprie entrate non copre neanche le spese di riverniciatura, si chiama Tour Eiffel. E’ un'opera disastrosa dal punto di vista finanziario ma, Parigi, è più importante per la tangenziale o per la Tour Eiffel? Le opere sono anche un simbolo. Allora, ecco la scelta del ponte, che è la più importante opera di ingegneria che mente umana abbia mai concepito dal punto di vista infrastrutturale. Ha più ore di progettazione che l’invio dell'uomo sulla luna, è un ponte rivoluzionario, un ponte appoggiato, che cambia la scienza ingegneristica. La verità è che ci vuole sempre un atto violento per fare ripartire le cose, quindi, quest’opera non è il ponte in sè, ma è la leva delle infrastrutture, se spendi una cifra di questa dimensione per farlo, ma come puoi non portare l'alta velocità dei treni giù?»

Oltre alla realizzazione dell’opera cosa occorre ai siciliani per non commettere gli errori del passato?

«Io credo poco o niente, nel senso che gli errori dei siciliani sono quelli degli italiani. Al bar rifacciamo il Paese, a casa diciamo che fa tutto schifo e in ufficio cerchiamo di fregare lo Stato. Questi sono gli italiani, questi siamo noi. La Sicilia è stata una delle matrici culturali ed etniche di questo Paese, a Milano, Cuccia era siciliano, Palermo, Li Gresti, Virgillito, Sindona infine, erano siciliani! Questi comandavano, davano le carte! Dunque, la matrice siciliana è una delle grandi fonti del Paese, persone di grande spessore, quando si parla di siciliani si intende l'archetipo degli italiani. Cosa devono fare? La domanda è un'altra: cosa devono fare gli italiani? Riuscire in un'equazione pressoché impossibile, cioè quella di essere persone serie, senza perdere la serenità e la gioia di vivere».

Crede in questa nuova classe politica?

«Una volta chiesi in via confidenziale a Francois Mitterrand – grande uomo – quale fosse la qualità indispensabile per un politico. Lui mi disse, secco “un ardeur d’avance”. I nostri ce l’hanno? Ecco, questa è la risposta». COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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