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«Ecco chi ha tradito l’economia italiana»

«Ecco chi ha tradito l’economia italiana»

L’economista Nino Galloni a Catania interpreta la situazione monetaria del Paese

Di Pinella Leocata |

CATANIA – Nel suo più recente saggio, “Chi ha tradito l’economia italiana? ” (Editori Riuniti), l’economista Nino Galloni sostiene che la crisi italiana comincia nel 1981, con la lettera con cui Beniamino Andreatta sancisce il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro per cui quest’ultimo non può decidere più del tasso d’interesse e della politica monetaria. Prima di allora, a partire dagli accordi di Bretton Woods del 1944, anche l’Italia aveva goduto di una buona fase economica propria del capitalismo espansivo il cui obiettivo era la massimizzazione delle vendite: c’era quindi ampio spazio per la crescita dei salari, dei profitti e della produttività. Poi, a partire dal 1981, i tassi d’interesse sul debito crescono enormemente, e in sei anni e mezzo, il debito pubblico raddoppia superando il Pil e, in pochissimo tempo, non ci sono più risorse per il Mezzogiorno, per le strategie industriali e per il welfare e si entra in una situazione opposta alla precedente. Una situazione che dura tuttora. Perché nell’81 si fece quella scelta? «Nell’81 c’era il progetto di moralizzare il Paese affetto da grande corruzione, la cui radice più importante si riteneva fosse nella gestione del denaro pubblico da parte dei politici. In verità, i politici della Prima Repubblica rubavano, ma rubavano sui profitti. Cioè creavano posti di lavoro, e rubavano. Creavano competitività, e rubavano. Facevano grande l’Italia, e rubavano. Per impedire tutto questo rubare, si tolse loro lo strumento degli investimenti pubblici e della spesa pubblica attraverso il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, con il risultato che i politici della Seconda Repubblica hanno continuato a rubare, ma sulle perdite, sulla disoccupazione, sulla crisi del Paese. Quindi abbiamo buttato via il bambino, lo sviluppo economico, e ci siamo tenuti l’acqua sporca, cioè la corruzione». Chi ha tradito? E perché? «La sinistra politica della Democrazia cristiana, esclusi alcuni personaggi come Granelli, Bodrato e mio padre Giovanni Galloni, la gran parte della leadership del Partito comunista, il mondo bancario, la Confindustria, una parte della grande industria e, ovviamente, la Banca d’Italia. Dentro questa alleanza c’erano quelli che, in buona fede, credevano di moralizzare l’Italia e invece l’hanno solo indebolita, e gravemente, ma insieme con loro c’erano quelli che intravedevano in questa situazione i lucrosissimi affari delle privatizzazioni che a tutto sono servite tranne che a migliorare servizi e industrie del Paese». Quali effetti ha sull’Italia l’attuale fase del capitalismo che lei definisce ultrafinanziario? «Il capitalismo ultrafinanziario finirà per spingerci, se abbiamo un briciolo d’intelligenza, fuori dall’euro, perché questo tipo di moneta tende a concentrarsi dove non serve, cioè dove ci sono attività molto lucrose, ma di tipo prettamente speculativo e finanziario, mentre è scarso nelle nostre tasche e per fare investimenti seri, produttivi, reali. A questo punto, come il miracolo economico non si fece con le lire, ma con le cambiali, ad un certo punto, se questo Paese ha ancora dell’energia, tirerà fuori delle monete fiduciarie alternative che, pian pianino, come sta accadendo in Grecia, vanno a sostituire la moneta a corso legale, come utilizzazione prevalente. Esistono già gli scec, i sardex. E in Sicilia si stanno facendo dei progetti, uno si chiama “grano” e uno “tarì”. Ci sono tantissime esperienze nella storia, tutte molto positive, dall’isola di Man alla Germania prima del nazismo, alla Svizzera. Ci sono monete complementari in Francia, negli Stati Uniti. In Grecia le amministrazioni locali, che non hanno un euro, pagano i disoccupati per pulire le strade, fare manutenzione dell’ambiente eccetera con dei buoni, loro li chiamano sirix, che hanno un valore equivalente, mettiamo, a 50 euro per una giornata di lavoro. Buoni con i quali i cittadini devono pagare i servizi all’amministrazione. Per esempio, io, Comune, apro un asilo nido supplementare e dico ai genitori che portano i bambini al nido che mi devono pagare non in euro, ma con questa valuta che i genitori acquistano dai disoccupati. Così l’amministrazione, senza spendere un euro, ha sistemato la strada, ha aperto un asilo nido e ha dato un lavoro, un reddito e una dignità ai disoccupati». Il nostro governo si sta ponendo questo problema? «Non mi pare. Il nostro governo vuole rimanere fermamente nell’euro. Vuole contrastare l’austerity, ma non capisce che l’austerity, l’euro e i trattati sono tutti una partita. Quindi o troviamo un modo per fare, come la Francia, un maggiore disavanzo pubblico e una banca pubblica che consente di trasformare qualunque spazzatura di titoli finanziari in euro, grazie alla collaborazione con la Bce – e non dimentichiamo che la Francia ancora emette franchi, perché in Africa le sue ex colonie utilizzano il franco – oppure, noi che non abbiamo neanche una di queste tre valvole di sicurezza, potremmo utilizzare quella della moneta fiduciaria. Anche lo Stato potrebbe emetterla e i privati lo stanno già facendo con meccanismi di compensazione tra crediti e debiti, sistemi alternativi di risoluzione delle controversie economiche, addirittura baratti e scambi tra giacenze di magazzino che abbiano ancora un valore. E ci sono le banche del tempo per cui le persone disoccupate mettono a disposizione ore di quello che sanno fare – servizi, ripetizioni, giardinaggio – e se le scambiano». È una dimensione di nicchia… «Si può sviluppare. Ci vuole una leadership e una regìa locale adeguata. Anche da questo dovrà venir fuori una nuova classe politica. Soprattutto al Nord tra le imprese si stanno sviluppando contratti di rete, una situazione giuridica per cui un gruppo d’imprese s’impegna a scambiarsi servizi, crediti, debiti, compensazioni, iniziative e a mette insieme determinati centri di costo, come fare le buste paga». È stato un errore entrare nell’euro? «L’errore grave è stato avere fatto il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia e quindi avere perso la sovranità sulla moneta. Anche l’euro poteva funzionare. Teoricamente bastava che la Banca centrale autorizzasse disavanzi dei singoli Stati in rapporto ai tassi di disoccupazione e in quel caso l’euro sarebbe stata una moneta utile a livello di un’Europa unita. Ma l’Europa non è unita, e il motivo per cui è stato fatto l’euro è quello di peggiorare, non di migliorare le condizioni». Secondo lei scientemente? «Sì. Nell’89 il progetto era che Mitterrand accettava l’unificazione della Germania e Kohl rinunciava al marco, ma perché la cosa funzionasse bisognava deindustrializzare l’Italia. La Francia non voleva che la Germania si riunificasse e non sopportava che il marco si rivalutasse ed entrambi non ce la facevano a resistere alla competitività italiana, non solo per via della leva valutaria, cioè della svalutazione della lira, uno dei principali strumenti di politica economica, ma proprio perché l’Italia dimostrava di essere troppo forte nelle sue esportazioni e nelle sue produzioni. Tant’è che tutt’oggi, anche se abbiamo perso il 25% della nostra capacità produttiva, questo progetto ha danneggiato soprattutto le grandi e medie imprese, mentre le piccole imprese, che pure soffrono, hanno resistito, riescono lo stesso a produrre e ad essere competitive, e noi restiamo la terza potenza mondiale quanto a diversificazione merceologica dell’export». Come usciamo da questa situazione? «Innanzitutto dobbiamo avere la piena consapevolezza che se non aiutiamo le nostre piccole imprese, se non facciamo una crescita della coscienza verso un modello economico in cui si dia importanza al lavoro, alla produzione e alle cose reali, invece che alla finanza, non se ne esce vivi. La prima cosa da fare è reintrodurre la netta separazione tra il credito, che è una funzione sociale fondamentale, e la speculazione finanziaria. Che questa vada per la sua strada, ma che non influisca più di tanto sull’economia reale. In secondo luogo, se c’è l’euro, è necessario avere una banca pubblica che ci consenta di scambiare varie tipologie di titoli, debiti, etc. con euro. Occorre ripristinare la sovranità monetaria anche attraverso l’emissione di moneta fiduciaria che, per ora, è compatibile con i trattati. Poi si vedrà l’evoluzione generale, perché dobbiamo considerare che l’Europa è una piccola cosa rispetto a Cina, India, Russia, Iran. Quindi se ci saranno queste novità storiche enormi, cioè il disimpegno degli Stati Uniti dal Mediterraneo e dal Medio Oriente, con un’importanza crescente dell’Iran, con tutte le conseguenze a cascata di questa situazione, noi dovremmo porci il problema del nostro ruolo nel Mediterraneo. Dovremmo rivedere con gli altri popoli d’Europa tutta la situazione e cercare di ripartire dall’economia locale e di valorizzare ciascuno quello che sa fare. Probabilmente oggi non siamo competitivi in certe alte tecnologie, ma siamo competitivi nell’agroalimentare, nella moda, nel made in Italy, nel turismo, nelle tecnologie intermedie, nella meccanica di precisione. Sono sempre state i nostri comparti di punta».

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