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l'intervista

Veronica Tomassini: «Scrivere è restituire il significato segreto del dolore»

Di Grazia Calanna |

«Le foglie si avvitavano in un turbine di colori minori, come mosse da un potere melodioso. Giallo e ocra si confondevano al suono di un vento proveniente dal sentiero in fondo, sopra le fronde dei faggi lontani. Il cerchio. Indizi di eternità che ognuno di noi consegna, restituisce, riproduce. Senza saper». Un passo scelto dal libro di Veronica Tomassini, “L’inganno” (ed. “La Nave di Teseo), che, da “Open”, a Catania, ospite del Festival nomade e itinerante “La culturale” diretto e fondato dal catanese Giancarlo Cutrona, e curato insieme a Livia Di Vona (cofondatrice), Alessio Canini e Mirko Miceli, ha letteralmente estasiato il pubblico intervenuto.

Voce, vocazione e invocazione. È un cuore esposto quello di Veronica Tomassini che con il fuoco della parola (l’amore), similmente alla protagonista del suo libro (potremmo dire l’altra se stessa), innalza preghiere dirompenti. Veronica – piace dirlo con le parole del poeta Ivan Crico, ospite della prima edizione di questo prezioso Festival -, riconsegna all'opera letteraria il suo destino supremo, la sua vocazione: restituire alla realtà il suo mistero. L’inganno cui si allude è (crediamo) l’inganno riconoscibile oltre la vicenda personale, è l’inganno che si ripete, che rischia di sprofondarci nel baratro inesorabile, l’inganno avverso una “precisa verità”, l’inganno miserabile.

Quella della Tomassini è una scrittura libera da artifici retorici, il cui ritmo coincide con un pensiero inesausto che “rifiorisce nella contrarietà”. Una scrittura che denota radicalità esistenziale, sussulti di stupore, indipendenza, libertà, presenza della ragione critica. Una scrittura che esclude la premeditazione, che, per emanciparsi dal tempo, cerca “quel tempo anteriore al tempo”, che tende all’eternità. Il perno è l’amore. Celestiale, sovrumano, cristico (come le immagini presenti in tutti i suoi libri). La sola cosa che possa salvare l’uomo. La sola ragione per restare al mondo. L’amore nella massima declinazione dell’impossibilità. La decisiva rivelazione. La guarigione. L’azione. Il perno attorno al quale ruotano la solitudine, il silenzio, il vuoto, il destino, l’attesa della “grande alba” (il tema della luce è centrale come nella rivelazione biblica; “nell’amore di Dio, noi riposiamo” – pp. 66; “la coscienza che l’Uno era sulla soglia del sogno collettivo di un’armoniosa felicità” – pp. 140).

Piace introdurre la nostra intervista con le parole di Emil Cioran, “soltanto quello che è stato concepito nella solitudine, innanzi a Dio, si sia o no credenti, è destinato a durare” e, certo, la scrittura di Veronica Tomassini ha questo destino.

– Cosa può lo scrivere contro “la parola connivente di ogni errore”, contro “l’inganno”?

«»Non sono sicura che la parola salvi sempre, guarisca, consoli. A volte dilania, disvela le consapevolezze anche altrui, le acque che si aprono e le nostre miserie le attraversano illese. Le acque sono le parole, che discendono dal Verbo. Il Verbo si fece carne. Dobbiamo riflettere su quel che per noi, evangelicamente, questo possa significare e persino la materia dell'inganno può diventare lo strumento di una illuminazione, dunque di una conversione».

– Tendiamo all’infinito tanto quanto l’impossibile o (aggiungo) fino a farci amore (come sembra dire il suo libro)?

«Le parole balbettano la mancanza che ci abita. Noi la chiamiamo nostalgia, inquietudine, incomunicabilità, tutte accezioni mondane, confacenti. Non trovano luogo tuttavia, l'assenza che ci abita è la vocazione all'infinito, chi ha fede la chiama Dio. La Sua assenza è la ragione della nostra buona battaglia o anche non lo fosse, buona, è sempre una prova di resistenza, la mancanza, conduce spesso al bivio dell'impossibile, laddove non riusciamo a pronunciare il Nome, l'Eterno, a ragionarci su è un rintronare di ali sbattute sul vetro, una disperazione inesplicabile, qualcosa di già prescritto. In un primo stadio di conoscenza, pensiamo si tratti semplicemente di errori, ma nell'esegesi di un destino è qualcosa di biblico e irrevocabile. Concluderemo la nostra vita, realizzando che l'inquietudine, la nostalgia, erano in fondo un salmo segreto, l'invocazione del Suo nome. Dio».

– Qual è stato il confine che pensa di aver superato grazie alla nudità della sua scrittura?

«Forse alcune rivelazioni, sconosciute persino a me stessa. Forse alcune risposte. Non che questo abbia ingenerato una qualche forma di felicità. D'altronde la felicità è un concetto difficile da conformare alle nostre esistenze. Qualcosa come il passato o il futuro, di fatto inesistente, se non in una prospettiva del "già superato" o dell'altro che te lo faccia sapere. La felicità è quel sentimento che te lo deve indicare qualcun altro, una di quelle declinazioni del sentimento che se non è condivisa non esiste, ma poi: la felicità è un sentimento? E l'amore?».

– Leggendo ho ricordato un passo di Bufalino, lo riporto rendendolo interrogativo: “si scrive per rendere inoffensivo il dolore, biodegradarlo, come si fa coi veleni della chimica. Può essere una vernice, la scrittura, che ci anodizzi i sentimenti e li protegga dalle salsedini della vita”?

«Al momento ci si può illudere di aver addomesticato la ferita perenne. Senza la quale non c'è scrittura. Per quanto mi riguarda, l'illusione viene sconfessata dal down successivo alla scrittura. Scrivere è restituire il significato segreto del dolore. Molto volgarmente oggi me lo apostrofano come piagnisteo, altri colleghi scrittori. No comment. La letteratura diventa una robetta per cui chiunque si mette lì di buzzo buono, come se non riguardasse altre dimensioni ben più profonde e di solito irraggiungibili».

– E, ancora (o invece), questa volta chiamo in causa Pavese: nell’inquietudine e nello sforzo di scrivere, ciò che sostiene è la certezza che nella pagina resta qualcosa di non detto?

«Più che non detto, non detto abbastanza. Allora si torna a scrivere, nella reiterazione, che diventa finanche un metodo artistica, la ricorsività. O anche il cineasta che gira sempre lo stesso film, su diversi piani sequenza».

– Che fine ha fatto la resistenza (almeno) intellettuale? In che modo, specie in un momento storico “delicatissimo” come quello che stiamo vivendo, in un mondo sempre più incapace di ascoltare (“irretito”, ridotto all’incapacità di comprendere) cosa può la scrittura?

«L'intellettuale resistente è una figura remota. Negli anni pandemici, del grande inganno (a proposito di inganno), abbiamo assistito a forme abbandoniche del ruolo, a viltà e violenza, conformismo e opportuna ricollocazione. Abbiamo visto tutto, cadute le maschere, rimane un pallido alone di chi credevamo scrittore impegnato e coraggioso, ridotto a una macchietta ottusa, assoldata e filogovernativa; ma ne sono emersi altri, magari che non avremmo conosciuto mai. Intellettuali coraggiosi fino allo stremo, più noti e meno noti, e ti faccio i nomi: Ivan Crico, Andrea Ponso, Giulio Milani, Pietro De Angelis, Enrico Macioci, Giorgio Bianchi, Aldo Nove, Matteo Fais, Roberto Addeo. E altri ancora. Coraggiosi, fino alla fine».

– I libri devono più istruire o più interrogare? E, nella seconda eventualità, quale vorrebbe fosse l’interrogativo cardine sollevato dal suo “L’inganno”?

«I libri devono interrogare. Non consegnano verità pedagogiche. Consegnano insinuazioni. L'interrogativo del mio "L'inganno"? È più una lapide: L'amore è tutto, l'amore è una vita in pezzi».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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