Intervistiamo la scrittrice Viola Di Grado in una pausa del suo tour di promozione del nuovo libro “Fame blu” (La nave di Teseo), un romanzo che il lettore non è in grado di dimenticare perché s’insinua nei meandri della mente e vi si insedia, potente. Il libro è anche una storia di un amore “anomalo”, quasi una fame oscura, narrata con un linguaggio unico, che è la cifra narrativa dell’autrice. Prorompe in ogni pagina l’interesse viscerale della Di Grado per il mondo delle parole, per l’universo racchiuso nelle sillabe, portatrici di senso, sentimenti e filosofie.
Da quali fonti scaturisce la sua ispirazione e come nasce “Fame blu”?
«Non so dove nasca la mia scrittura. Dalla pelle, dalle ossa, da tutti gli organi interni: il mio corpo intero partecipa alla creazione della voce che reclama una narrazione. Sono nata scrivendo o quasi. A quattro anni avevo già scelto di scrivere anziché conversare con gli altri. I rapporti interpersonali mi creavano disagio e un senso di vuoto. Parlavo un linguaggio diverso dagli altri bambini. “Fame blu” nasce durante una residenza di scrittura a Shanghai, poco prima del covid. Tenevo una conferenza all’università di Shanghai e a un certo punto sono andata in bagno. Aprendo la porta mi sono ritrovata davanti una ragazza bellissima che mi ha detto: Sono una tua fan, ti amo, dammi il tuo numero. Gliel’ho dato e lei a me e l’indomani le ho scritto: portami al mattatoio. Avevo infatti letto di un mattatoio anni ’30 che era un po’ alla Escher e un po’ art-deco. Un luogo straordinario. Mi ci ha portato. Un vecchio ci fece delle foto e lei si metteva in posa come se il suo corpo nascesse per quello. Poi anche io l’ho fotografata, stesa sulle scale su cui un tempo marciavano i poveri agnelli. Nel frattempo, mentre nella realtà accadeva poco e niente, il romanzo si sviluppava nella mia testa».
In un senso molto particolare “Fame blu” è un libro sull’amore. Quali le parole orientali che lei reputa più belle per indicare l’amore?
«L’ideogramma di amore, in cinese e giapponese, contiene la notte e gli artigli, ed è proprio quello l’amore del mio libro. Un amore feroce e notturno, come la città sconfinata e divorante che è Shanghai. Non mi interessa letterariamente il tema dell’amore se non come pretesto, come lente deformante delle personalità. Mi interessa osservare come un’entomologa il modo in cui l’amore deforma chi lo sperimenta, chi lo desidera e non lo ottiene, chi lo conquista ma ne viene schiacciato».
Il lavoro di ricerca delle parole e di cesello sui testi prorompe dalle pagine del romanzo. In che modo nasce un suo libro?
«Nasce da un’immagine, da un caos primordiale, che può anche essere solo una sensazione. Mentre scrivo prende forma, e la cambia di continuo. A un certo punto faccio il montaggio, cinematograficamente, perché la mia non è mai una scrittura cronologica».
Lei è una scrittrice nota in tutto il mondo e lei vive nel mondo, spostandosi fra diverse nazioni. Quali sono le città che la rappresentano e quale il suo rapporto con la sua città natale, Catania?
«La mia casa spirituale è Kyoto, con il suo culto della bellezza anziché di un Dio. La mia casa psichica è l’Islanda, con la sua lava e il suo ghiaccio e i suoi folletti. La mia casa letteraria è Londra. Amo vivere tra i fantasmi dei suoi scrittori. Ho sempre abitato vicino a qualche scrittrice o scrittore che amavo. Virginia Woolf, Sylvia Plath, Dylan Thomas… Mi lascio proteggere e guidare dal loro spirito, che è impresso in quelle strade e in quei giardini solitari. Il mio rapporto con Catania è cambiato nel tempo. Prima la odiavo, soprattutto perché nell’adolescenza ero circondata da coetanei idioti e violenti, e in genere da un’atmosfera oppressiva che scoraggiava la creatività e l’individualismo, la produzione di idee. La scuola era un ambiente chiuso, omologante e brutale, un calderone di luoghi comuni e di aggressività. L’atmosfera era di sopraffazione e di banalità. Forse ho proprio sbagliato scuola, ma quella che ho scelto l’ho scelta perché era vicina a casa di mia nonna, a cui sono molto legata. O forse sperimentare quel tipo di violenza era necessario alla mia scrittura, come un apprendistato al dolore. A 15 anni sono stata picchiata da una gang in Villa Bellini con mia sorella, davanti a tutti. Nessuno ha chiamato la polizia, tutti osservavano eccitati dalla scena, compreso un carabiniere. Questo e altro ha alimentato l’orrore che provavo. Era una città in cui, a quei tempi, se prendevi per mano la tua migliore amica ti urlavano “lesbica” per strada. Sono fuggita da Catania a 17 anni; poi l’ho ritrovata da adulta: la sua luce, il suo vulcano mistico. La gente è cambiata, e comunque a me la gente non piace da nessuna parte. Ciò che conta è che la Sicilia è un’isola magica e ricca di contrasti in cui sono fiera di essere nata».