Premessa metodologica: visto che l’intervistatore non possiede il bagaglio da critico letterario, allo scrittore intervistato si chiede di parlare del suo nuovo romanzo accettando la pochezza culturale delle domande. Chiacchiere da bar. Anzi: da osteria. Un’osteria di Leonforte.
«Siamo già attovagliati».
Magari parliamo di Sicilia. “Sono cose che passano” è ambientato negli Anni 50 in un entroterra cosmopolita, ottimista e anche godereccio. Molto diverso dall’Isola di oggi: chiusa, grigia, terribilmente bigotta.
«Vero è. Nella Sicilia di oggi anche se sei in via Pacini, in pieno centro di Catania, ti puoi sentire in periferia. Mentre allora in ogni angolo dell’isola non si aveva questa sensazione di essere ai margini della storia e del tempo, ti sentivi sempre contemporaneo a tutto ciò che accadeva».
A cos’è dovuta questa differenza? Al destino cinico e baro, al riscaldamento globale, a un processo di provincialismo irreversibile?
«Probabilmente a un processo di provincialismo calato dall’alto che ha inoculato quella sensazione orrenda che chi resta è un emarginato».
Perché il nostro dopoguerra, inteso come post-Covid, oggi non è così.
«A quel tempo i licei erano fior di licei, le preture avevano fior di giuristi, i gabinetti medici avevano straordinari luminari, l’università era in assoluto un luogo che poteva parlare al mondo intero. E soprattutto c’era un senso dell’ospitalità degno dei versi di Omero: lo straniero che arrivava portava in dote ricchezza su ricchezza, suggestioni, immagini, scambi. Come ad esempio tutto ciò che arrivava a Villa Piccolo a Capo d’Orlando, nelle case di Catania, di Palermo. Caltanissetta era la Taormina di campagna, ai tavoli da gioco che si apparecchiavano nelle dimore antichi blasonati e patrizi affrontavano la rovina con lo charme di una grande pagina di letteratura».
Giochiamo coi personaggi. Rodolfo, il barone di Polizzi, baro e inadeguato, chi potrebbe essere oggi?
«Oggi potrebbe essere chiunque tra noi si infila in un meccanismo più grande di se stesso, chi ha l’arroganza di volere raccontarsi per come non è. E capita purtroppo nell’imprenditoria, nelle avventure politiche e anche sul piano delle scelte esistenziali. È una dimensione che riconosciamo nell’atmosfera siciliana ma corrisponde a uno schema universale».
E Ottavia, la principessa vip a cui sta stretta la dimensione siciliana?
«Corrisponde ad un altro tipo ben collaudato anche dei giorni nostri. Nel libro è forte e determinante la presenza delle donne, questo anche per capovolgere un luogo comune con un elemento sconosciuto ai più, ma che noi siciliani riconosciamo immediatamente e cioè che il potere al femminile è un elemento determinante del nostro percorso storico. Quella Sicilia degli Anni 50 aveva una connotazione di potere tutta al femminile. Ad esempio il personaggio della madre, che ho studiato ammirandone il ritratto ad olio, si fa dipingere come una Monna Lisa con alle spalle il paesaggio dei suoi feudi ma soprattutto, nello sforzo di eleganza e di gioielli, mostra al suo fianco tutte le chiavi dei magazzini e dei fondachi».
E all’epoca non c’era bisogno di quote rosa per esercitare questo potere…
«No, era un potere femminile incardinato nella sostanza più che nella forma e perfino gli uomini, i mariti, avevano l’accortezza di togliere il disturbo cercandosi una morte naturale».
Abbiamo bisogno di una Lucy cosmopolita, che ci risvegli ?
«Secondo me ne abbiamo sempre bisogno e, quando ho lavorato nella fase di studio e di documentazione, mi sono reso conto di un fatto che un lettore catanese coglie immediatamente: abbiamo sempre necessità di fronteggiare e confrontarci con una Milla, il personaggio chiave di quella straordinaria commedia che è L’aria del continente, una che con i suoi modi continentali e cosmopoliti irrompe nella comunità siciliana, trascina e travolge tutti e poi si scopre che in realtà è di Valguarnera Caropepe. Un dettaglio che smonta tutto! Però proprio l’entroterra siciliano, i miei paesi – Leonforte, Agira, Valguarnera Caropepe, Aidone – tutto l’entroterra con l’esperienza che ho avuto col festival di Morgantina, mi hanno confermato l’idea che questo nostro entroterra è proprio ombelico intorno al quale ruota un idea di cosmo, di mondo, quella bella atmosfera tutta intinta d'identità stessa greco-romana dei nostri luoghi, l’impronta saracena e le trasmigrazioni che nell’800 e nel ’900 che ci hanno portato verso le Americhe, fanno capire come in noi sia facile questo istinto all’universalità. Noi in realtà siamo veri uomini di mondo perché il mondo si da ben volentieri appuntamento in Sicilia e questa consapevolezza deve farci capire quanto sia potente il lascito di economia e commercio che abbiamo nei nostri territori. Se convochi una qualunque star, ad esempio Frank Zappa, ma chiunque, non vede l’ora di venire in Sicilia per creare una meraviglia, non come si va in Thailandia per i vizi».
E il Demone famelico? Magari i politici siciliani avrebbero bisogno di un suggeritore che li aiuti a scompaginare, a liberarsi dall’autoreferenzialità.
«Servirebbe, anche per evitare di gareggiare tra loro stessi invece di gareggiare con una scommessa ulteriore. La nostra vera dannazione è questa, facciamo della politica un immediato consenso e non una strategia. La mia più bella esperienza di lavoro l’ho avuta quando qualche tempo fa mi ritrovai seduto a un tavolo per varare un progetto che vedrà l’attuazione nel 2043. Guardandomi attorno, mi resi conto che nessuna delle persone sedute a quel tavolo avrebbe visto l’attuazione di quel progetto. Ed è stata la sensazione più bella, perché avevi la consapevolezza di fare una cosa che succederà dopo e avrà la sua efficacia. Mentre quando pensiamo a cose per domani lo facciamo perché ci sia la nostra faccia, il nostro nome, i riflettori su di noi, anche a dispetto del vero valore delle cose stesse».
Vogliamo parlare del romanzo?
«Sì, volentieri…».
La morte è molto presente. Perché? Cos’è? Una maturità crepuscolare, una serenità interiore?
«È serenità, perché mi sono reso conto che tutte le esperienze di dolore e di lutto mi hanno confermato la certezza dell’eterno, invece che procurarmi angoscia. E ho capito che noi siciliani abbiamo questa consapevolezza, tanto è vero che ci sono canoni a cui facciamo riferimento: quelli della luce e del lutto, secondo i quali da noi i morti portano i regali, non portano spavento. E quando si sta per morire si corre verso il letto di casa propria e non nella degenza di un ospedale per sparire in una sorta di profilassi sanitaria, da noi quando si muore si spalancano le finestre e l’invito è a buon luogo per dire che i propri cari sono accanto a te ma in una dimensione eterna».
Quanto c’è di vissuto buttafuochesco in questo presepe neorealista?
«Ovviamente il vissuto c’è tutto, la corrispondenza dello stato civile no!».
Di essere bello è bello davvero. Ma cos’è questo libro?
«Una divertentissima tragedia».
Twitter: @MarioBarresi