VITTORIA – Poteva anche scapparci un morto in famiglia. Ma, alle 7,53 di quella mattina del 23 luglio del 2008, nel magazzino della loro ditta, i Consalvo provano a risolvere «la questione». Le telecamere della polizia inquadrano la scena. Giovanni, il figlio ribelle, minaccia il padre Giacomo: «Te la faccio pagare… Ti sparo! Ti sparo!». E il genitore, che indossa una maglietta bianca lacerata dopo uno scontro fisico con l’erede, gli risponde: «Sei un pezzo d’infame e drogato di merda». Giovanni viene strattonato dallo zio Salvatore; Giacomo è tenuto a bada dall’altro figlio, Michael. «A chi devi sparare? Fammi sparare», è la sfida del padre-padrone, ma lui – il primogenito – non demorde. «Vattene! », prova a fermarlo il fratello. E anche lo zio fa da paciere: «Giacomo, lascialo stare! ». Giovanni risale sulla Bmw X5, si fa trattenere dallo zio, ma non scampa all’ultimo “agguato” del padre. Che lo picchia, per l’ennesima volta. Fin quando – alle 7,56 – Giovanni mette in moto il suv e sgomma via dal magazzino.
Non è soltanto una questione di casci (cassette), di fitari (ominicchi) e di mafia al mercato ortofrutticolo di Vittoria. Perché l’operazione che ha portato all’arresto dei Consalvo (il padre e i due figli) s’intreccia in un groviglio di capitoli. Dentro i quali c’è davvero di tutto: lo scontro generazionale padre-figlio, le intimidazioni a commercianti e operatori della zona, i racconti dei collaboratori di giustizia, la “mafiosità” ancien régime dei vecchi e la spocchiosa ostentazione dei giovani. E poi ancora: le armi nascoste (ma di cui ci si vanta) e i soldi sporchi; i commercianti che collaborano e quelli che negano, davanti ai poliziotti, pure le estorsioni più evidenti; la mappa del potere, passata e presente, delle cosche nel Ragusano e i collegamenti con i boss del resto della Sicilia. C’è un vero e proprio Romanzo Criminale, nelle 181 pagine dell’ordinanza del gip di Catania, Alessandro Ricciardolo, che ha accolto le richieste di custodia cautelare del pm Andrea Ursino.
Gli episodi di estorsione sono documentati da enciclopediche intercettazioni telefoniche e ambientali. Tutti, scrive il gip, commessi dalla famiglia Consalvo «con l’aggravante di aver agito con metodo mafioso, avvalendosi della forza di intimidazione e della condizione di assoggettamento e di omertà derivante dalla sua contiguità al clan mafioso “Dominante” di Vittoria».
Il primo caso ha come vittime Giovanni e Lucia Puccia, titolari della “Bosco Grande Srl”, costretti a comprare cassette in plastica e angolari dalla “Multipack”, ditta intestata a Silvia Cicerone, ma «di fatto gestita dall’indagato Giovanni Consalvo», anziché dalla concorrente “Pap Srl” di Giovanni Cassiba. Con minacce esplicite, colte in un’intercettazione dell’11 novembre 2008: «Se non scarico le casse io – intima Consalvo a Puccia – non scarica nemmeno Cassiba… Io adesso me ne vado e vi faccio vedere… ». Nota bene: sia l’azienda dei Puccia sia quella del concorrente Cassiba sono state oggetto di furti, danneggiamenti e incendi, fra il 2008 e il 2010. I Puccia, sentiti dagli investigatori, hanno raccontato alcune delle circostanze poi confermate da altri metodi di indagine.
Il secondo episodio riguarda la “Plasticontenitor” di Scicli, di Guglielmo Santospagnuolo, che produce e vende contenitori di plastica. Michael Consalvo, istigato dal padre, ferma l’autista Santo Scivoletto mentre, il 7 marzo 2008, scarica le cassette alla “Malizia” di Acate. «Lo hai capito che qui non puoi scaricare? », dice il giovane Consalvo all’attempato autista. Il titolare e il dipendente dell’azienda minacciata non fanno i nomi, ma si limitano a «una descrizione sommaria del soggetto autore della minaccia». Il resto, però, lo fa il chiacchiericcio degli estorsori intercettati.
Ben più pesanti, invece, le intimidazioni subite da Antonino Salafia, titolare della “Vittoria Colonna”, per comprare gli imballaggi dalla “Co. Gi. Mi” di Angela Scifo, moglie del capostipite Giacomo Consalvo. «Si è andato a comprare le casse da un’altra parte», riferisce al telefono Michael alla fidanzata. Con la quale, il 10 novembre 2008, si vanta di «aver schiaffeggiato», assieme al padre, una persona: Salafia, che, sentito in commissariato, «ha negato le percosse», annota il gip. Poco dopo la mezzanotte del 20 marzo 2010 i locali della “Vittoria Colonna” saranno inghiottiti da un incendio: mezzo milione di euro di danni. «Mai ricevuto richieste di estorsioni», dichiarerà Salafia ai poliziotti.
Carmelo Comaci, detto Gianni, è un agente di commercio della “Breplast Spa” di Stradella, in provincia di Pavia. L’uomo, suo malgrado, viene schiacciato da una faida all’interno dei Consalvo. Il figlio Giovanni, infatti, si mette in proprio e chiude questo “affare” all’insaputa del padre Giacomo. Che, scoperto il raggiro, va su tutte le furie: «Io non è che lo faccio succedere così il bordello!… Io lo faccio succedere con le cose serie! », dice Consalvo senior a Cormaci in una minacciosa telefonata dell’8 aprile 2009, prima di chiedere (e ottenere) all’impaurito interlocutore di restituire tutto il ricavato di un carico di merce consegnata al «traditore», con tante scuse e la promessa che «non succederà più».
La lezione finale: «State attenti a come vi comportate!… Perché… non mi dovete far perdere la pazienza», dice Giacomo a Cormaci, che «sentito nel corso delle indagini, non ha in realtà confermato le minacce del Consalvo – annota il gip Ricciardolo – ma ha lasciato intendere come ben sapesse che costui era soggetto pericoloso».
Fra le ipotesi di reato contestate ai Consalvo c’è anche la detenzione illecita di armi da fuoco: due semiautomatiche dapprima custodite nel magazzino della “Co.Gi. Mi” e poi nascoste per paura dei controlli di polizia. Un “peccatuccio”, rispetto alla gestione del racket delle cassette. Le evocano più volte «quelle cose che sono messe là sopra», padre e figli. Michael, addirittura, ne fa oggetto di vanto con un’amica con le microspie che registrano: «Tu chiedilo ai Nigito chi è mio padre! A chi ha sparato mio padre». Poi sposta un muletto e mostra alla ragazza il segreto: «Una è mia e una è di mio padre».
La disponibilità delle armi è dimostrata anche dalle minacce reciproche che i Consalvo si fanno nei momenti di tensione. «T’ammazzo» e «ti sparo» sono frasi ricorrenti. E poi lo stesso Giacomo minaccia un meccanico di Acate estraendo una pistola, come si evince da una telefonata fra Emanuele Messineo e Giuseppe Ballarò. Ma una «straordinaria conferma», per i magistrati, arriva da un collaboratore di giustizia, Giovanni Ferma, sentito nel novembre del 2012, che racconta al pm di «aver visto le armi nascoste» e di «averne addirituttura preso in prestito una nell’estate del 2012».
Già un altro collaboratore, lo stiddaro pentito Giuseppe Doilo, aveva parlato nel marzo 2012 della famiglia Consalvo, confermando che «esplicitava minacce verso i clienti al fine di costringerli a rifornirsi presso di loro». Ed è proprio a queste accuse – estorsione e di illecita concorrenza con minaccia o violenze – che il gip dedica buona parte dell’ordinanza. Unendo, come si fa con i puntini nella Settimana Enigmistica, tutti gli episodi che dimostrano l’esistenza del racket delle cassette.
Decine e decine di intercettazioni. Con chiare minacce, come nella telefonata del 12 novembre 2008 di Giacomo Consalvo al venditore Roberto Sola di Gela “colpevole” di aver proposto un prezzo più conveniente alla “Sicil Ortaggi”: «Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo lavorare o dobbiamo levare mano? Tu me lo devi dire… ». Esplicando il concetto: «Tu gli hai detto 67 più Iva…Qua noi la cassa la vendiamo 75 perché i ruffiani non li facciamo a nessuno e già è la seconda volta… Da Ventura e da questo! Se pensi che tu levi i clienti a me ti stai sbagliando». L’interlocutore prova a difendere le sue ragioni: «No, io non ti voglio togliere i clienti, voglio solo lavorare».
Ma la replica di Consalvo è chiara: «Allora venditi la cassa a Gela oppure vendi quanto la vendo io e qua a Vittoria di te non si deve nemmeno sentire l’odore! ». Anche perché, come chiarisce all’impaurito Cormaci nel suo magazzino il 26 maggio 2009, Giacomo Consalvo «dopo 24 anni che sono uscito (dal carcere, ndr) non sono lo “scopino” di nessuno» e «nel mio piatto mangio solo io». Quasi impossibile essere più chiari di così.
twitter: @MarioBarresi