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Via d’Amelio, dietro la strage non solo la mafia. Ora è scritto anche in una sentenza

Depositate dai giudici del tribunale di Caltanissetta le motivazioni sul processo sul depistaggio. La bomba costò la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta

Di Redazione |

«L’istruttoria dibattimentale ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D’Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino».

Lo hanno scritto i giudici del tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Il processo si è concluso con la prescrizione del reato di calunnia aggravato contestato ai poliziotti Bo e Mattei e l’assoluzione del terzo poliziotto imputato, Ribaudo.

«La ricostruzione del passato è stata spesso manipolata al fine di fornire una interpretazione dei fatti che è funzionale alla tutela di interessi non alti, ma altri rispetto alla ricostruzione autentica di tanti eventi cruciali e cupi degli ultimi decenni di storia del nostro Paese.

La strage di via D’Amelio, tragica nel suo esito umano e deflagrante sul piano politico istituzionale dell’epoca in cui si consumò, ne è esempio paradigmatico e pone un tema fondamentale, quello della verità nascosta, o meglio non completamente disvelata» scrive il tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza con cui a luglio scorso ha dichiarato prescritta l’accusa di calunnia aggravata dall’aver favorito la mafia contestata a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, e assolto il terzo imputato, Michele Ribaudo.

Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia. «L’odierno collegio – spiegano – ritiene che il diritto alla verità possa definirsi un fondamentale diritto della persona umana nell’ambito del quale si fondono, fino a modificarsi geneticamente quando entrano in contatto, sia la prospettiva individuale, delle vittime e dei loro familiari, che quella collettiva».

L’agenda rossa

«A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di cosa nostra» scrivono in un altro passaggio i giudici nisseni.

«Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze. In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda.- scrive il tribunale – Gli elementi in campo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario o opportuno sottrarre».«In secondo luogo,- concludono- un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi, ma già 1992 – il movente dell’eccidio di Via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage ( che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di Via D’Amelio».

Le amnesia degli uomini dello Stato

I giudici hanno sottolineato «l’obiettiva ritrosia di molti soggetti escussi – non solo spettatori degli avvenimenti dell’epoca, ma anche attori, più o meno centrali, delle vicende oggetto di esame – a rendere testimonianze integralmente genuine che potessero consentire una ricostruzione processuale dei fatti che fosse il più possibile vicina alla realtà di quegli accadimenti».«Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni (soprattutto i componenti del Gruppo investigativo specializzato Falcone- Borsellino della Polizia di Stato), – spiegano – e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico ed insoddisfacente il riscontro incrociato».

Scarantino mentitore professionista

«Scarantino è un mentitore di professione: è un soggetto che mente dal 1994 e che ha deliberatamente deciso, a distanza di quasi trent’anni, di continuare ad offrire ricostruzioni arbitrarie, ondivaghe e false. Anche nell’odierno procedimento ha certamente prospettato una ricostruzione dei fatti che non può coincidere con la realtà, soprattutto nella misura in cui ha attribuito in toto ad Arnaldo La Barbera in primis e ai suoi uomini poi, la paternità di tutta una serie dichiarazioni accusatorie che altro non potevano essere se non il frutto dei margini di autonomia – certamente ampi – che, per scelta o più probabilmente per necessità, gli vennero lasciati». Lo scrivono i giudici del tribunale di Caltanissetta nella sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio. Scarantino è uno dei falsi pentiti che, secondo l’accusa, sarebbero stati imbeccati dalla polizia guidata allora da Arnaldo La Barbera.«Più che rappresentare una prova scivolosa da maneggiare con cautela, Scarantino rappresenta una prova insidiosa dalla quale è necessario prescindere a meno di non rimanere ostaggio delle altalene dichiarative dell’ex falso collaboratore», spiegano. «Proprio alla luce della sua costante ambiguità dichiarativa, risulta praticamente impossibile discernere – concludono – quali siano le singole circostanze effettivamente suggerite e quali siano frutto della personale iniziativa, con la conseguenza che non è possibile attribuire con sicurezza una condotta ad un soggetto piuttosto che ad un altro».

La Barbera non voleva favorire la mafia

«Gli elementi probatori analizzati finora non consentono di ritenere – al di là di ogni dubbio ragionevole – che Arnaldo La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o di gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta». Lo scrivono i giudici di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sula strage di via D’Amelio in riferimento all’ex capo della Mobile Arnaldo La Barbera ritrenuto dall’accusa il «motore» dell’inquinamento dell’inchiesta. «Non vi è dubbio che La Barbera abbia agito anche per finalità di carriera e – dopo essere stato messo da parte alla fine del 1992 in corrispondenza con l’arresto di Contrada – una volta rientrato nel circuito abbia fatto letteralmente carte false per poter mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della Polizia di Stato e nell’establishment del tempo», spiegano.Sui maltrattamenti che il falso pentito Vincenzo Scarantino riferì di aver subito nel carcere di Pianosa dalla polizia che voleva costringerlo ad accusarsi della strage e accusare innocenti «non può ritenersi – aggiungono – che gli stessi fossero riconducibili a disposizione impartite da La Barbera (ex capo della Mobile ndr) o da Mario Bo (tra gli imputati del depistaggio ndr)». «Se può dirsi inoltre anche logicamente certo che, nell’ottica di un pressing investigativo eufemisticamente duro e spregiudicato (come si è visto, tradottosi anche nella fabbricazione di falsi collaboratori di giustizia come Andriotta al fine di dare la spallata alle resistenze di Scarantino), la sua labilità psicologica sia stata utilizzata dagli investigatori per convincerlo a collaborare (con ogni mezzo), non può però ritenersi provato che le condotte di cui Scarantino fu vittima a Pianosa siano ascrivibili alla longa manus di Arnaldo La Barbera», proseguono.«Però è tristemente e altamente probabile che quest’ultimo ne fosse quantomeno a conoscenza» concludono i giudici che parlano di una «disgraziata e devastante gestione penitenziaria che ha realizzato una sospensione dei principi dello Stato di diritto e delle garanzie costituzionali che non può che suscitare indignazione».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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