Verso la sentenza uno dei più clamorosi “cold case” di Catania: «Fu lui a ucciderlo 32 anni fa»

Di Concetto Mannisi / 09 Novembre 2022

Ucciso perché aveva sollecitato al suo assassino il pagamento di cinque milioni delle vecchie lire, un debito di droga, che sarebbero dovuti confluire nelle casse del clan dei “Carrateddi”. O, comunque, per questioni legate allo spaccio di sostanze stupefacenti.  Sembra esserci questo alla base della morte di Rosario Cinturino, preso a martellate e poi strangolato con una corda il 27 marzo 1990.

Oltre trentadue anni fa, quindi. Nel periodo in cui a Catania non c’era giorno in cui non si sparasse e in cui i dipendenti delle pompe funebri non raccogliessero cadaveri lungo le strade.

Motivazioni, mandanti ed esecutori di una parte considerevole di questi fatti di sangue vennero svelati successivamente dai collaboratori di giustizia che hanno, negli anni, reso dichiarazioni davanti ai magistrati della Procura etnea. Ma un’altra parte, non meno consistente, è rimasta avvolta nelle tenebre.

Una sorte che sarebbe toccata, probabilmente, anche all’omicidio di Rosario Cinturino. Se non fosse che nel marzo di tre anni fa una solerte ispettrice superiore del Gabinetto di polizia scientifica di Catania pensò di inserire nello specifico database due impronte papillari rinvenute sulla Fiat Panda della vittima, ovvero l’auto nel cui portabagagli fu trovato – da una guardia giurata, in via Crocifisso, alle spalle del faro Biscari – il corpo incaprettato del Cinturino.

Ebbene, da quel controllo emerse che quelle impronte che ventinove anni prima non erano risultate appartenere ad alcuno, questa volta, grazie anche a una tecnologia certamente più sofisticata, risulterebbero essere quelle dell’allora fruttivendolo Rosario Guzzetta, oggi cinquantaquattrenne, rinviato a giudizio lo scorso anno proprio per questi fatti e adesso in attesa di una sentenza che, dopo la requisitoria in Corte d’Assise di ieri e la richiesta di condanna a 21 anni di reclusione da parte del procuratore aggiunto Ignazio Fonzo, collaborato in questa attività di indagine dalla sostituta procuratrice Alessandra Russo, il giudice Sebastiano Mignemi dovrebbe presto emettere. Probabilmente il prossimo 19 dicembre, data alla quale è stato aggiornato il processo per la discussione della difesa dell’imputato.

 

 

Si tratta, come è facile comprendere, di uno dei più clamorosi “cold case” della nostra provincia (un altro, arrivato a processo, riguarda l’omicidio della figlia dello storico boss di Paternò, Pippo Alleruzzo). Un fatto di sangue che in un primo momento era sembrato potesse rimanere ancora nel mistero, atteso che il Guzzetta nel periodo in cui fu commesso l’omicidio di Cinturino risultava essere in stato di detenzione nel carcere di Nicosia (dall’ottobre del 1986 al gennaio del 1993). Purtroppo per lui, però, fu chiarito che fra i tanti permessi premio goduti in quegli anni, uno di questi – dal 15 al 30 marzo del 1990 – era stato speso proprio nei giorni dell’omicidio, motivo per cui gli investigatori della squadra mobile, coordinati dalla Procura, poterono mettersi all’opera per portare in emersione quella che sembra essere oggi la tragica verità.

E ciò anche attraverso una serie di intercettazioni successive al decreto di perquisizione notificato all’indagato, in cui era chiaramente riportata la motivazione di quell’azione investigativa – l’omicidio di Rosario Cinturino – nonché al relativo interrogatorio.

Il Guzzetta, parlando con amici e familiari, avrebbe dimostrato di ricordare perfettamente quei fatti e in più avrebbe aggiunto che la vittima era stata “martoriata”, come in effetti è stato. Un particolare non presente, però, nel capo di imputazione. Così come lo stesso imputato è stato “ascoltato” mentre riferiva  dei colpi di martello alla testa della vittima, che il Cinturino aveva effettivamente ricevuto. Anche questo particolare sembra che non fosse stato diffuso, nelle prime fasi di indagini, dagli inquirenti.

Di più. Il Guzzetta, a detta degli investigatori, ipotizzando a un certo punto di essere intercettato avrebbe anche cominciato a costruire una verità di comodo da spendere durante il processo: «L’ho incontrato e ci siamo abbracciati e baciati», avrebbe detto per giustificare l’eventuale presenza di elementi a lui riconducibili sul cadavere della vittima. Inoltre è stato intercettato mentre riferisce di essere salito a bordo della “Panda”, ma senza ricordare se come passeggero o, addirittura, come guidatore (ciò per giustificare la presenza sul mezzo delle sue impronte, che poi apprenderà essere state trovate sullo sportello lato passeggero); racconta di avere incontrato il Cinturino, suo ex compagno di cella in piazza Lanza, casualmente e di avere semplicemente bevuto un caffè in sua compagnia, salvo poi affermare di essere salito sull’auto della vittima; cambia la versione in corsa e “ricorda” di avere incontrato il Cinturino in compagnia della convivente, oggi deceduta e non più in grado, quindi, di confermare le circostanze di quell’incontro; si dice assai certo della possibilità che lui possa essere finito nel mirino di qualche collaboratore di giustizia disonesto, che attraverso queste false dichiarazioni avrebbe potuto tentare di incastrarlo.

 

 

Il nome che fa, in particolare, è quello di Concetto Bonaccorsi, già boss dei “carrateddi”, ovvero il gruppo in cui il Cinturino sarebbe stato inserito e che avrebbe potuto avere qualche notizia “de relato” della morte dell’affiliato.  Ciò prima di  escludere completamente questa possibilità alla notizia che nessun pentito aveva offerto un contributo all’attività di indagine che lo riguardava.

Rosario Cinturino si era allontanato quel giorno da casa per acquistare una torta e festeggiare il compleanno di una congiunta.  Non vi fece più ritorno perché fu intercettato ed ammazzato da uno o più sicari.

Anche questo passaggio viene seguito con attenzione dagli investigatori, che da mezze frasi dell’uomo – disposto «a farsi la galera con le orecchie calate» – non escludono che qualcuno lo abbia aiutato nell’omicidio. Anzi, dopo il ritrovamento del cadavere si ipotizzò che  più persone fossero pronte a bruciare l’utilitaria in via Crocifisso, coi miseri resti del Cinturino a bordo, e che l’arrivo della guardia giurata le costrinse alla fuga.

Per Rosario Guzzetta ieri sono state richieste le circostanze attenuanti generiche in virtù del tempo trascorso ma viene considerata ritenuta provata, dall’accusa, la assoluta responsabilità. «Poco da aggiungere rispetto alla richiesta della Procura – ha dichiarato l’avvocato Salvatore Pietro Paolo Puglisi, che con l’avvocato Davide Giugno rappresenta le parti civili –  Pur avendo sottolineato tutti gli aspetti processuali, atti a comprovare la penale responsabilità dell'imputato, ritengo che, comunque andrà il 19 dicembre, sottolineo la forza dei miei assistiti, Bonaccorsi Giuseppa e Cinturino Giovanni. Il mio pensiero va a loro, genitori del povero Rosario, che hanno affrontato un procedimento scaturito per l'omicidio del figlio e, piano piano, mi sono reso conto del dolore che hanno provato e proveranno per sempre». 

Condividi
Pubblicato da:
Alfredo Zermo