CATANIA – Un “serial killer” invisibile. Che non lascia impronte. Eppure colpisce – e talvolta uccide, anche a distanza di anni – migliaia di persone. Quasi tutte con un elemento in comune: la professione.
È una strage silenziosa, quella dei militari vittime dell’uranio impoverito. Si tratta soprattutto di chi, nelle missioni dell’ultimo quarto di secolo, è entrato in contatto con il metallo pesante utilizzato per la fabbricazione di munizioni e proiettili. Secondo alcune stime sono circa 7mila i militari italiani che hanno contratto malattie tumorali, in apparenza inspiegabili, legate all’uranio impoverito. E i morti accertati sono più di 350.
Quante sono le persone coinvolte in Sicilia? Calcolarlo è stato complicato. Molti militari, seppur siciliani, quando si sono ammalati (e alcuni sono morti) ormai non erano più residenti nell’Isola; d’altro canto alcuni risultano nei registri dei distretti militari regionali, ma sono residenti che non hanno origini siciliane. Facendo un’operazione di scrematura, si arriva a un numero sconcertante: 454 vittime dell’uranio impoverito. Nella macabra classifica per regioni, la Sicilia è subito dopo Sardegna (538), Puglia (501) e Campania (475).
«Sia pur per approssimazione, la Sicilia risulta essere la quarta regione d’Italia come numero di militari che hanno contratto malattie presumibilmente legate agli effetti patogeni dell’uranio impoverito», ammette Gianluca Rizzo, presidente della commissione Difesa della Camera. «Parliamo di 454 servitori dello Stato, alcuni dei quali – ricorda – hanno perso in questi anni la vita a causa della malattia. Ricordo i casi del carabiniere Giuseppe Bongiovanni , tra i primi ammalati e al quale venne diagnosticato un tumore “rarissimo” poi riscontrato successivamente anche in altri militari oggi tutti deceduti».
L’esponente calatino del M5S cita un altro record negativo: «Purtroppo la Sicilia ha anche il brutto primato di non denunciare e una buona parte dei malati non ha avviato alcun tipo di riconoscimento o ricorso successivo al respingimento delle istanze regolarmente presentate nei propri reparti». Ma c’è anche un punto d’eccellenza: «L’ospedale “Cervello” di Palermo da subito ha iniziato a classificare e seguire con particolare attenzione l’evolversi delle patologie tumorali dei numerosi malati militari a cui hanno diagnosticato la malattia».
Pur essendoci ben 130 procedimenti che – come ricorda l’avvocato Angelo Fiore Tartaglia, dell’Osservatorio militare – sul piano giuridico hanno accertato il nesso di causalità tra esposizione all’uranio e malattie, le alte gerarchie militari continuano a negare le proprie responsabilità. La linea di difesa della Difesa è sempre stata la stessa: è stato fatto tutto il necessario per garantire la sicurezza del personale. E s’è subito avvertito un chiaro nervosismo quando l’ex ministra Elisabetta Trenta, additando il «silenzio spaventoso dei vertici», nello scorso maggio annunciò: «A breve ci sarà una legge per tutelare i diritti dei militari che hanno dato la loro disponibilità per il loro Paese. Non sarà più il militare a dover dimostrare che si sia ammalato al servizio del Paese, ma sarà la Difesa a dover dimostrare che la malattia non sia collegata al servizio reso».
Una rivoluzione interrotta dalla caduta del governo gialloverde (nel quale la Lega era meno sensibile al tema dei diritti delle vittime dell’uranio impoverito), ma anche da una relazione che la stessa Trenta firmò assieme all’allora collega Giulia Grillo (Salute): nessun nesso di causalità fra l’esposizione e i tumori che hanno colpito migliaia di militari. Un documento-shock, tirato fuori dall’Avvocatura dello Stato in un processo sulla morte di un carabiniere. «Quella relazione – minimizza Rizzo – è ancora sottoposta alla discussione congiunta delle commissioni Difesa e Affari sociali. E il relatore, Gianluca Aresta, aveva opportunamente evidenziato come quel documento, mancando della conferma del comitato tecnico, fosse privo di una validazione scientifica».
E allora si riparte. Con un barlume di speranza per la battaglia di centinaia di militari italiani che furono in missione in Bosnia e Kosovo, ma anche in Iraq e Afghanistan, anche se sott’accusa sono pure alcuni poligoni di tiro e caserme nel nostro Paese) possa avere una conclusione di verità e di giustizia. Anche contro quell’«ostinato negazionismo» denunciato dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta presieduta nella scorsa legislatura dal dem Gian Piero Scanu. Proprio da quel testo, appunto, si ricomincia anche con una proposta di legge per modificare il decreto legislativo del 9 aprile 2008, sul tema della sicurezza sul lavoro e la tutela assicurativa contro gli infortuni e le malattie professionali del personale delle forze armate. «Un testo – ricorda il presidente della commissione Difesa di Montecitorio – che riprende, con lievissime modifiche e aggiornamenti, quello che nella scorsa legislatura depositammo con Scanu primo firmatario». Una proposta che un testo figlio diretto di quella inchiesta e alle cui conclusione ho partecipato nella mia qualità di commissario. L’approvazione a larghissima maggioranza della relazione finale ha rappresentato una linea di confine tra il prima e il dopo. Le evidenze che abbiamo elencato dopo tantissime audizioni dicono infatti che esiste una relazione tra l’esplosione di munizionamento con uranio impoverito e l’emergere di malattie tumorali di vario genere tra i militari che si trovarono ad agire in quei contesti. Stiamo raccogliendo le adesioni tra tutti i deputati perché vogliamo che il testo, come era stato nella scorsa legislatura, sia condiviso dalla larghissima parte dello schieramento politico. Più adesioni avrà quel testo, più capacità avrà di procedere speditamente nella sua approvazione».
Magari rompendo, stavolta, i muri di gomma in cui s’è sempre infranta la ricerca di verità e di giustizia.
Twitter: @MarioBarresi