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CALTANISSETTA

Stragi 1992, domani c’è l’interrogatorio di Maurizio Avola

Il killer catanese dovrà rispondere alle domande del gip su via D’Amelio e Capaci

Di Laura Distefano e Laura Mendola |

Il giorno della resa dei conti è arrivato. Domani il pentito Maurizio Avola varcherà la porta del palazzo di giustizia di Caltanissetta per rispondere alle domande del gip Santi Bologna. È un passaggio cruciale delle indagini suppletive che il giudice ha ordinato dopo la richiesta di archiviazione avanzata dai pm nisseni per le due inchieste sulle stragi di Capaci e via D’Amelio aperte dopo le rivelazioni dell’ex sicario santapaoliano. Il killer dagli “occhi di giaccio” – con alle spalle oltre ottanta omicidi – decise qualche anno fa, a distanza di diversi decenni dalla sua scelta di entrare nel programma di protezione, di svelare il coinvolgimento dei catanesi negli eccidi del giudice Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avvenuti nel 1992. Avola diventò collaboratore esattamente trent’anni fa. Ma in quella fase parlò in modo «generico» solamente della strage di Capaci. Ma recentemente il collaboratore catanese ha allargato lo spettro, spiegando che gli avrebbero offerto di fare da artificiere nella preparazione all’attentato a Giovanni Falcone. Riferì del trasporto dei panetti di esplosivo a Termini Imerese assieme al suo “superiore” Marcello D’Agata, responsabile del gruppo di Ognina. In quell’interrogatorio del 2017 spuntò “il forestiero” conosciuto a casa di Aldo Ercolano, alter ego all’epoca di Nitto Santapaola, che avrebbe fatto da istruttore di esplosivi per la strage di Capaci. Avola, Ercolano e D’Agata sono stati iscritti nel registro degli indagati per gli omicidi di Falcone, della moglie Francesca Morvillo e per gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro.

La procura nissena convocò Marcello D’Agata per avere un riscontro all’allargamento di visione di Avola. Il consigliere di Cosa nostra, che ha ammesso a tempo debito i reati che i magistrati catanesi gli hanno contestato, smentì categoricamente il killer. I pm hanno predisposto anche un faccia a faccia tra i due. Ma ognuno di loro ha fatto retromarcia. D’Agata parlò «per un dovere ed un fatto di coscienza» perché «nel tempo ho fatto la scelta di lottare per quello in cui io credevo, cioè nella vecchia “cosa nostra” cui avevo aderito. Poiché l’associazione, cui avevo aderito non era più quella di prima ed io la vedevo ormai solo come un mostro sanguinario, decisi di prenderne le distanze per evitare la commissione di altri fatti di sangue. La strage di Capaci è stato uno degli episodi che mi ha portato a maturare questa scelta che ha comportato anche un mettere a rischio la mia vita».

Ai magistrati nisseni il consigliere della famiglia mafiosa Santapaola ricordò che «nella sentenza relativa all’omicidio Lizzio è riportato un passaggio in cui Brusca dichiarava di aver intuito che Galea nulla sapeva delle responsabilità di cosa nostra sulle stragi. In sede di verbale riassuntivo specifica che conseguentemente neppure poteva essere stata richiesta una partecipazione di Avola». Per la strage di Capaci «posso affermare – chiarì D’Agata – che, dopo aver appreso di questa strage, io dissi ad Avola che essa rappresentava la fine di tutto perché non ci si poteva mettere contro lo Stato. Io ed Avola non eravamo a conoscenza di nulla. Escludo dì aver avuto qualsiasi ruolo nella strage di Capaci né dì averne curato in qualche modo l’organizzazione». Poi D’Agata fece notare ai pm che al processo “Orsa Maggiore” (che si è celebrato a Catania, ndr) Avola aveva indicato una Fiat Uno bianca «quale mezzo di trasporto per portare il tritolo di Capaci, ora cambia versione e indica un’altra vettura».Ma il capitolo più caldo che dovrà affrontare domani Avola è quello che riguarda la strage di via D’Amelio. Per cui sono indagati oltre Avola, D’Agata ed Ercolano, anche Eugenio Galea. Il “colletto bianco” della famiglia di Cosa nostra catanese.

Nel 2020 Avola chiese di essere sentito. Per la prima volta parlò della sua partecipazione diretta all’omicidio del giudice Paolo Borsellino e degli agenti di polizia della scorta. I pm gli fecero fare anche uno schizzo grafico dopo aver redatto il verbale.Ecco cosa raccontò: «Io mi posizionai all’angolo tra via D’Amelio e la strada principale che doveva percorrere il corteo di auto per dare il segnale. Avevo un contatto visivo con Graviano che era posizionato dietro al furgone Ducato parcheggiato su questa strada principale dall’altro lato della strada; ciò perché Graviano doveva premere il telecomando e dalla sua posizione non poteva vedere quando il magistrato scendeva dall’auto. Io vidi arrivare il corteo composto dalla prima macchina guidata da Borsellino che era solo, seguito da altre due auto con gli agenti di scorta, ricordo che l’autista della terza vettura, credendomi un collega, mi fece un cenno di saluto. Subito dopo il passaggio del corteo io attraversai l’incrocio camminando lentamente e perdendo qualche momento per accendermi una sigaretta, in questo modo potei vedere quando il giudice lasciò la macchina con la porte anteriore verso un giardino sito al fondo di via D’Amelio e scese attorniato da almeno 4 uomini della scorta. A quel punto diedi il segnale facendo un cenno con il capo a Graviano e poi mi riparai dietro il muro attraversando le strisce pedonali. Intanto ci fu la deflagrazione. Subito dopo il fatto, salii sulla A112 che guidava Ercolano e ci allontanammo».

Alcuni passi di questa narrazione non coincidono con quello che ricorda l’unico sopravvissuto, Antonio Vullo.

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