«Esclusa qualsiasi ipotesi di collusione con i mafiosi, se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare la libertà di Provenzano, ciò ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato». Lo scrive la corte d’assise d’appello nelle mtivazioni della sentenza sulla del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia che ha assolto il generale Mario Mori "e a cascata" i coimputati Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno. Secondo i gudici i carabinieri avrebbero voluto «favorire la latitanza di Provenzano in modo soft».
«V'erano dunque indicibili ragioni di "interesse nazionale" a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della sommersione, – spiegano – almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l’organizzazione. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso».
«Ecco perché, il R.O.S., lungi dal disinteressarsi delle indagini mirate alla cattura di Provenzano, ne avrebbe fatto, apparentemente, un obbiettivo prioritario del proprio impegno investigativo in Sicilia, finendo per acquisire una sorta di monopolio di quelle indagini. Conoscere la rete di favoreggiatori era essenziale per potere esercitare comunque una pressione sul boss corleonese, e alimentare in lui la consapevolezza che i Carabinieri avessero la possibilità e la capacità di porre fine alla sua latitanza, e tuttavia non l’avrebbero fatto finché vi fosse stata una convenienza in tal senso», aggiungono.
«Insomma, si voleva "proteggere" Provenzano, ossia favorirne la latitanza in modo soft, e cioè limitandosi ad avocare a sé vari filoni d’indagine che potevano portarne alla cattura, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo; ma tutto ciò non già perché, in caso di trasgressione di un fantomatico patto, l’altro contraente, avrebbe riattivato lo stragismo, bensì perché la caduta di Provenzano che avrebbe inevitabilmente fatto seguito ad un suo arresto, avrebbe favorito il riemergere delle pulsioni stragiste mai del tutto sopite in Cosa Nostra», affermano.
«Il disegno era quello di insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente all’interno di Cosa Nostra e fare leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l’apparente monolitismo dell’egemonia corleonese, per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l'incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista. Un disegno certamente ambizioso e che si collocava in posizione intermedia tra la vera e propria '"rattativa politica" e una mera "trattativa di polizia", perché richiedeva, almeno in prospettiva, qualcosa di più che non ciò che oggi, ma non solo oggi, potrebbe definirsi favoreggiamento».
Secondo i giudici quindi «le finalità dell’agire di Mario Mori sono incompatibili con la configurabilità a suo carico di un dolo di concorso nel reato di minaccia a corpo politico dello Stato, essendo suo obiettivo esclusivo non già di corroborare la minaccia mafiosa, bensì di sterilizzarla, alimentando la spaccatura già esistente in Cosa nostra con una iniziativa dagli effetti divisivi, e dissuasiva per gli associati che condividessero o simpatizzassero per la scelta strategica dello stragismo".
Così la corte d’assise d’appello che ha celebrato il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia colloca l’iniziativa dei carabinieri del Ros, assolti dal reato di minaccia a corpo politico dello Stato, di intavolare un dialogo con pezzi della mafia negli anni delle stragi. «Il possibile negoziato aveva come interlocutore, per il tramite di Vito Ciancimino, non già i vertici mafiosi, – spiega la corte – genericamente intesi, o addirittura Salvatore Riina, bensì i capi di quella componente dell’organizzazione mafiosa che fosse disponibile e interessata a defenestrarlo, per insediare al suo posto una leadership per sua vocazione e convinzione propensa a cercare il dialogo per potersi dedicare profìcuamente allo sviluppo dei propri affari, piuttosto che attaccare frontalmente lo Stato in tutte le sue articolazioni».
«Nessun interesse, dunque, neppure indiretto a brandire la minaccia mafiosa come strumento di pressione sul Governo per condizionarne le scelte in una situazione di costrizione, quale sarebbe stata la prospettazione di nuove stragi se non fossero state accolte le richieste di sorta di dialogo o di intesa a distanza soccombesse nella competizione con lo schieramento antagonista, e che quindi a prevalere fosse la strategia più sanguinaria e violenta: come sarebbe accadutose i capi della componente più moderata fossero stati messi fuori gioco da improvvide catture o arresti», conclude la corte.
Le motivazioni riportano poi che la strage di Via D’Amelio era decisa e la sua esecuzione non fu accelerata dalla cosiddetta trattativa. Una conclusione in netto contrasto con la sentenza di primo grado che vedeva proprio nella conoscenza da parte di Borsellino del dialogo intrapreso dai carabinieri con il sindaco mafioso Ciancimino, la ragione dell’accelerazione dei tempi dell’attentato a suo danno. «L'operazione Borsellino era già in itinere; ed allora si può concedere che l’essere venuto a conoscenza che uomini dello Stato si erano fatti sotto per negoziare non ebbe l’effetto di dare la precedenza all’attentato a Borsellino, sconvolgendo un’ipotetica diversa scaletta del suo programma criminoso: più semplicemente, non fece cambiare di una virgola, a Riina, i suoi piani», scrive la corte.
«E' assai più probabile, incrociando le varie fonti di datazione degli avvenimenti in oggetto, che Riina sia stato edotto dell’iniziativa dei carabinieri del R.O.S. e della sollecitazione rivolta attraverso Ciancimino soltanto dopo che la strage di via D’Amelio era stata commessa», spiega. «E ovviamente si dà per scontato che un intervallo temporale di soli 57 giorni – poiché tanti ne passarono tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio- sia troppo esiguo, per non pensare all’intervento di uno o più fatti nuovi che abbiano imposto di abbreviare i tempi: – conclude la corte – come se esistesse un prontuario delle stragi (mafiose) che insegni quale sia il tempo canonico che è opportuno far passare tra una strage e l’altra per cui, pur disponendo dei mezzi, degli uomini delle capacità organizzative e tecnico-logistiche, nonché del potenziale bellico necessari all’impresa, Cosa Nostra avrebbe dovuto attendere più di due mesi».
–