Sistema Montante, le “varianti” che resistono nell’Isola degli antimafiosi

Di Mario Barresi / 22 Marzo 2021

CALTANISSETTA – No, questa non è una vecchia galleria degli orrori. Né un album di famiglia – le merende in bermuda sotto il gazebo dell’albergo di Cefalù, le cene di cordata con l’ex governatore, l’assessora di fiducia e altri fedeli commensali – di quelli che è passato talmente tanto tempo da non riconoscersi più, quasi vergognandosi di com’era prima. Di come eravamo. E non c’entra nulla il pudore – quasi un esorcismo senza esorcisti – di chi spera che il «video a contenuto sessuale» con Rosario Crocetta, che continua sdegnosamente a smentire, ritratto «in atteggiamenti intimi con soggetti minori, di nazionalità tunisina, non meglio identificati» sia soltanto una millanteria ricattatoria dei tenutari della premiata ditta del fango. La verità più scomoda è che questo non sarà nemmeno, semmai dovesse andare in aula, soltanto un processo a un pezzo di storia della Sicilia che non c’è più.

All’indomani della notifica degli avvisi di conclusione delle indagini in uno dei filoni aperti a Caltanissetta sul sistema Montante, resta lo spiacevole retrogusto di una tendenza a circoscrivere la vicenda – finanziamenti illeciti alla politica, giunte regionali inginocchiate, appalti agli amici e indagini antimafia sui nemici – a brandelli di tempo e di spazio molti limitati.
E invece no. Perché chi liquida con frettoloso fastidio l’inchiesta-bis su Antonello Montante e i suoi adepti, appunto come se fosse una storia di arsenico confindustriale e vecchi merletti crocettiani, compie almeno un paio di macroscopici errori.
Il primo è quello di esiliare protagonisti e comparse.

Le solite storielle siciliane, che al di sopra dello Stretto – a meno che non si tratti di una puntata del commissario Montalbano – non si capiscono, gattopardesche e pirandelliane nella loro essenza, quindi appaiono provincialotte e noiose. Eppure no, non è così. Chi ci dice che, sostituito il “pezzo difettoso”, il sistema non possa ancora funzionare con altri ingranaggi e dinamiche di livello nazionale? Che garanzia – di diritto, ma soprattutto di dignità umana – c’è in un Paese dove l’ex direttore nazionale della Dia è fra i 13 indagati per aver fatto aprire indagini on demand per compiacere il califfo della legalità? Arturo De Felice è accusato dai pm nisseni di aver esercitato «le proprie prerogative istituzionali, sia investigative che direttive, in maniera tale da soddisfare gli interessi personali» di Montante. Chi, al di là della costituzione di parte civile nell’eventuale processo, ripagherà gli inquisiti-spiati-dossierati? De Felice, in cambio di «incarichi retribuiti» al figlio Otello (in Confindustria e alla Luiss) e dell’assunzione della figlia Francesca nell’azienda-chic Brunello Cucinelli, «in concomitanza con una pluralità di incontri» con l’ex leader di Confindustria Sicilia, «sollecitava» i capicentro Giuseppe D’Agata (Palermo) e Gaetano Scillia (Caltanissetta) di scavare nelle vite dei nemici di Montante: «attività di indagini di polizia giudiziaria o, in alternativa, funzionale all’applicazione di misure di prevenzione patrimoniali».

 

Non una sbirciatina nello Sdi del Viminale (reato per cui ci sono due processi paralleli) o un articoletto del giornalista compiacente. Ma inchieste antimafia. Di quelle che ti rovinano; bastano due fotocopie dentro un fascicolo ed è fatta. E, nonostante le Dia provinciali non trovino alcunché, si convocano «riunioni info-operative». Fioccano «sollecitazioni» alla Procura di Caltanissetta per «intraprendere mirati accertamenti» su Tullio Giarratano, Umberto Cortese, Pasquale Tornatore e Shams Aldin Killi, questi ultimi due «asseritamente vicini a Pietro Di Vincenzo». Nel mirino anche Totò Moncada, l’imprenditore agrigentino leader nell’eolico. Ma anche uno degli editori di LiveSicilia, Giuseppe Amato, l’ex direttore del sito regionale, il compianto Francesco Foresta (contro il quale, per chi ha letto altre carte, Montante sembra avere un accanimento quasi personale che va ben oltre l’ira per qualche articolo sgradito) e il padre Pasquale.

De Felice, lamentandosi «dell’insufficienza delle prime schede informative» su Amato e sui Foresta, nel febbraio 2014 «si recava personalmente» alla Procura di Palermo «per raccogliere elementi che consentissero di avviare un’attività di captazione» nei loro confronti. E, «benché consapevole della totale infondatezza della presunta notizia di reato», il direttore della Dia imponeva ai suoi una richiesta di intercettazioni, che, «ancorché avallata dalla locale Procura e dal competente ufficio Gip» si concludeva «quasi immediatamente senza esito».

Chi ci garantisce che il postulato della superiorità morale dell’antimafiosità autocertificata non produca ancora vittime dopo quelle indicate nelle carte? E perché delocalizzare il sistema produttivo dell’antimafia malata? De Felice risponde a Montante non dalla Siciliuzza intraducibile, ma dalla plancia di comando di Roma. Dove l’imprenditore di Serradifalco trovava la copertura di ex ministri, magistrati, pezzi pregiati dello Stato, vertici dei servizi segreti e delle forze dell’ordine, con azioni (e omissioni) raccontate da altre incheste, compresa quella della commissione Antimafia dell’Ars.

E, anche volendo restare nell’ambito regionale, chi ci assicura che in questi anni siamo riusciti a sviluppare gli anticorpi per scongiurare la diffusione di una “variante” del sistema Montante? C’è ancora chi ha il potere di imporre nomine – assessori, manager di aeroporti o seggiole di sottogoverno – che servono a tutelare interessi illegittimi? Ci sono ancora pezzi di Regione che rispondono a logiche come quelle addebitati dai pm alle ex assessore Linda Vancheri e Mariella Lo Bello, amazzoni montantiane nel governo Crocetta, così come all’ex commissaria Irsap Maria Grazia Brandara, rimasta in sella all’Ias anche in piena epoca musumeciana fino alle dimissioni indotte dalle pressioni dopo un’inchiesta del nostro giornale?

Ci sono imprenditori, nel maleodorante settore dei rifiuti (come contestato all’indagato Giuseppe Catanzaro, delfino di Montante ed ex presidente autosospeso di Sicindustria) o nelle aree industriali (come nel caso del capo d’imputazione di Carmelo Turco), in grado di orientare le scelte della politica? Ci sono, sul modello deviato di Expo 2015 (62mila euro spesi dalla Regione per un evento Unioncamere a Washington dal 2 al 7 novembre, una vetrina per 20 aziende, poi ridotte a 6 fra cui l’Antico Torronificio Nisseno, «riconducibile a Montante»), potenziali sprechi nell’orgia di soldi facili di Covid e Recovery Fund?

Ecco perché gli altri processi in corso a Caltanissetta meritano di essere seguiti senza sbadigliante distrazione mediatica: l’appello dell’abbreviato in cui Montante è stato condannato a 14 anni, ma soprattutto quello con rito ordinario, che sembra annacquato da una melina difensiva ma soprattutto destabilizzato da un gioco delle parti (civili) in cui le presunte vittime diventano i carnefici processuali dei grandi accusatori dello stesso ex paladino antimafia.

Ecco perché bisogna rispondere a qualche domanda. Quanto e cosa resta ancora del sistema Montante? Chi ha continuato a difendere questo baraccone, mutatis mutandis, magari utilizzando la clava legalitaria contro chi osa dubitare delle nuove icone sventolate anche dagli ex seguaci del paladino confindustriale?

Ecco perché quest’ultima inchiesta di Caltanissetta non è una semplice cosa di casa nostra. Il reality “L’Isola degli antimafiosi” può magari cambiare conduttore e concorrenti, ma è sempre in onda. Ed è più reale che mai.

Twitter: @MarioBarresi

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Redazione
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