Non è un tribunale. Tanto meno dell’inquisizione antimafiosa. E dunque – come ci si aspettava, com’è giusto che sia – le 119 pagine di relazione finale dell’Antimafia dell’Ars non sputano sentenze sul sistema Montante. Ma lo raccontano. Da un’angolatura privilegiata. Per quello che è stato. E forse è tutt’ora: «Uno spaccato di reticenze e benevolenze che attraversa la Sicilia e l’intera nazione, e non risparmia nessun ambito istituzionale: dalla magistratura alla stampa, dal governo regionale a quello nazionale, dalla pubblica amministrazione all’impresa privata».
Senza l’ansia da prestazione giudiziaria – ma senza cadere in tentazioni giustizialiste – il lavoro della commissione di Claudio Fava consegna «una fotografia impietosa delle istituzioni siciliane». Ben diversa da quei “selfie della legalità”, tutti sorridenti con Antonello Montante; ormai vecchi scatti di polaroid che i potenti di ieri (e di oggi) vorrebbero strappare in mille coriandoli.
Ma dà un senso – magari è più una sensazione – di ordine, il lavoro della commissione. Che mette in fila protagonisti e comprimari, vittime e carnefici, pupi e pupari, bulli e pupe. Tutti a parlare di Montante, a rinnegarlo. Rinnegando se stessi. Una grande verità la racconta, nell’audizione, Angelino Alfano: «Eravamo all’apice», dice raccontando il momento storico della nomina dell’ex leader di Confidustria al vertice dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, forse l’inizio della fine o la fine dell’inizio. «Poi, venti giorni dopo, c’è stata la rivelazione del segreto istruttorio da parte del giornale e se violavano il segreto istruttorio venti giorni prima non lo nominavo». Eccolo «lo spartiacque»: lo scoop di Repubblica sull’indagine per mafia. Il prima e il dopo. Non ci saranno più le cene rivelate dall’ex prefetto di Caltanissetta, Carmine Valente: «Qualche volta sono stato anche da solo ma c’è stato Lari con me, c’è stato il presidente della Corte d’Appello Cardinale, c’è stata la Sava e quando è arrivato una volta a Caltanissetta, in visita, il vicepresidente del Csm, a casa sua (di Montante, ndr) c’è stata una cena con tutti i vertici della Magistratura siciliana, erano quindici persone tra cui c’ero io… Lui era anche amico del Ministro, amico di Alfano, lo chiamava e qualche volta me l’ha anche passato ed io ho parlato con Alfano. Con la Cancellieri aveva dei rapporti anche pregressi, non so…».
Dando per scontata la buona fede di chi è stato gabbato dal “double face” dell’antimafia, l’istruttoria della commissione dell’Ars dedica anche un ampio paragrafo al rapporto con i magistrati. Partendo dalle rivelazioni de La Sicilia sull’indagine di Catania sui «rapporti più o meno istituzionali» con le toghe all’epoca a Caltanissetta, finita con un’archiviazione «in assenza di altri elementi di difficile accertamento», pure nella consapevolezza di una condotta non illecita «per quanto disponibile». Tutti i magistrati hanno declinato l’invito in Antimafia. Tranne Nico Gozzo, che «ridimensiona l’episodio annotato da Montante», ovvero un sms «per segnalare la ditta individuale del suocero, con contestuale appuntamento alla Camera di Commercio nissena»: nessuna «segnalazione», a vantaggio del congiunto «peraltro ottantacinquenne, solo la richiesta di un certificato» camerale, «un atto peraltro dovuto». Ma Gozzo, nell’audizione, riflette a voce alta: «Mi chiedo se sia normale una cosa del genere», riferendosi al fatto che «l’unico atto di indagine che c’è agli atti è l’audizione di Montante», definito «reticente». E allora il magistrato sente «fortemente messi in discussione i miei diritti fondamentali». Perché in un’indagine senza indagati «a noi non è stato dato neanche il diritto di dire una parola su questa vicenda».
Parlano, eccome, le altre vittime del sistema. La storia-simbolo è quella raccontata da Marco Romano, docente universitario catanese, nominato all’epoca del governo Lombardo dirigente generale delle Attività produttive, l’assessorato con cui Montante voleva (e poteva) fare «la terza guerra mondiale». Davanti al paladino dell’antimafia e all’assessore Marco Venturi gli fu chiesto di «stilare un elenco di impegni che andavo a sottoscrivere». Una “scrittura privata” (una copia è stata consegnata all’Antimafia, ed è diventata un allegato della relazione) in cui si mette nero su bianco il da farsi. «Una serie di attività, di priorità: dall’organigramma alla riforma della Asi. Perché racconto questo fatto? Perché ebbi la percezione che si stava instaurando, in qualche modo, un rapporto quasi di delega in una logica privatistica di tipo imprenditoriale. Lo racconto come un aneddoto che un po’ mi lasciò perplesso. Mi fu detto: “Non ci fidiamo dei dirigenti che abbiamo avuto”».
Romano fu silurato poco dopo da Raffaele Lombardo. Che resistette, con la proverbiale ammuina democristiana all’assalto sulla privatizzazione dell’Ast che doveva finire in pasto alla socia-mignon di Montante. «Ritenne di non dovere andare subito ad una chiusura frontale con Montante per cercare di evitare un conflitto con Confindustria in un momento particolarmente delicato», gli dice Fava nell’audizione evocando la supposta “protezione giudiziaria” in cui confidava l’ex governatore poi processato per concorso esterno alla mafia. «Certamente. Perché me ne parla Montante e io gli dico “la studieremo, la vedremo, la verificheremo” e tiriamo avanti», risponde Lombardo.
L’assessorato confidustriale, le liste di proscrizione, l’Irsap («la cittadella del potere imprenditoriale in Sicilia», nella definizione di Nello Musumeci), l’assalto all’Ast, gli affari dell’Expo, il controllo dell’Ias di Siracusa, le spy story di Banca Nuova sollevate da Report. Non è un Romanzo Criminale, ma un’opera dei pupi. In molte scene compare Beppe Lumia, «il senatore della porta accanto», nella definizione cult che diventa titolo di un paragrafo. Secondo l’Antimafia dell’Ars – quasi una legge del contrappasso per un antimafioso doc – è lui «il demiurgo» della «interazione tra Montante e la politica regionale siciliana». Immanente, ma mai ingombrante. Anche se Gaetano Armao, assessore ora come allora, lo inchioda: «Non c’era questione che avesse una rilevanza finanziaria sulla quale l’onorevole Lumia non tentava di mettere il becco… per fortuna il Presidente Lombardo aveva la determinazione di tenerlo ogni tanto lontano da queste cose». Il senatore, nel racconto di Musumeci, «ha avuto l’abilità di assumere una posizione defilata, proprio per non richiamare le attenzioni sul suo ruolo che, invece, era un ruolo assolutamente di primo piano. Lumia aveva il compito dell’arruolamento. (…) Non è un caso che nel Palazzo del potere per eccellenza, nell’ultima stanza in fondo al corridoio, ci fosse il regista, il senatore Lumia». Il diretto interessato butta la palla in tribuna: «Questo meccanismo si rompe. Perché si rompe? Pure io me lo sono chiesto. Chissà quante volte me lo sono chiesto. (…) Cosa è successo all’interno di Confindustria? È stata una rottura sincera?». Lumia chiude: «Attendo anch’io con curiosità, debbo dire anche con un po’ di interesse, di poter dare una risposta».
E Rosario Crocetta? Questo il racconto del magistrato Nicolò Marino, ex assessore ai Rifiuti: «Quando c’era qualcosa che dal suo punto di vista era meglio non discutere, Crocetta faceva finta di non sentire anche se tu gli parlavi un’ora e un minuto dopo o appena ti interrompevi, cambiava discorso». Compreso quando lo scontro fra Marino e Confindustria divenne guerra aperta. Un aneddoto simbolico: «Dopo quello che accadde all’hotel Excelsior – racconta Marino nell’audizione – io andai immediatamente, credo dopo tre o quattro giorni, a Tusa, invitando Crocetta a riprendere sia Lumia che Catanzaro che anche tutto quello che era il ruolo di Confindustria… Crocetta cambiò discorso, mi parlò credo di una tossicodipendente, non ricordo. Una cosa disarmante. Disarmante. Ecco, la parola esatta è disarmante. Era come se parlassi al vento».
Il domandone finale. Cosa resta del sistema Montante? Musumeci, che nell’audizione lo ribattezza «sistema Lumia», mette le mani avanti: «Non so se all’interno del mio Governo, quindi della mia Giunta, ci sia qualcuno contaminato da quel sistema di potere». Tende a «escludere qualunque tipo di contatto» dei suoi assessori, ma poi ammette e promette: «Se dovesse esserci, peggio per lui, perché resterebbe disoccupato…». E gli altri inquilini dei palazzi regionali? «La burocrazia è più o meno la stessa che c’era cinque anni fa, dieci anni fa». Tutto cambia per restare com’è: «Come si fa a dire che tutto sia reso impermeabile?», si chiede Musumeci. Che assicura «un richiamo alla responsabilità costante a vigilare». Su chi? Su cosa? Sui «nostri assessorati», che sono «affollati da mercenari, lobbisti, affaristi e accattoni. Da gente che cerca un nuovo padrino». Del resto, nell’ultimo colloquio prima di essere defenestrata, Patrizia Monterosso diede un consiglio al nuovo inquilino di Palazzo d’Orléans: «Qui anche i muri e le pareti hanno orecchie, non bisogna fidarsi di nessuno», come rivela Musumeci.
«Sapevamo. E abbiamo tollerato», è la conclusione di Fava. Da «questa ammissione», adesso «occorre ripartire, con umiltà». Per raggiungere uno degli obiettivi dichiarati dall’Antimafia regionale, e cioè «evitare che queste vicende possano impunemente ripetersi».
Il Sistema è morto. Evviva il Sistema.
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