Sicilia, meno laureati di Muntenia e Zàpadné

Di Mario Barresi / 11 Dicembre 2015

PALERMO – Chi sa dove si trova la Severozápad alzi la mano. Per gustarsi (si fa per dire) la scena madre del film Tesoro, mi si è ristretta l’università bisogna infatti indugiare su una tabella quasi nascosta fra le 339 pagine del Rapporto Res 2015. Nella quale si elencano le ultime 10 regioni europee per percentuale di laureati fra i 30 e i 34 anni. I dati, aggiornati al 2014, vedono all’ultimo posto la mitica Severozápad (nel nord della Bulgaria, quasi al confine tedesco) con appena 16 giovani laureati su 100. Attenzione: la nostra Sicilia registra il 17,7% di laureati. Superando di un’incollatura – queste sì che son soddisfazioni – la Sardegna (17,4) e dal Sud-Est della Romania (17,6). Ma comunque siamo peggio di Sud-Muntenia e Nord-Est (entrambe regioni romene) e Západné (Slovacchia).
Nota margine: il 40% di giovani laureati, obiettivo europeo al 2020, è decisamente fuori dalla portata anche dell’intera Italia, che, con il 23,9%, è all’ultimo posto fra i 28 Stati membri.

 


Ma perché le università del Sud – e quelle siciliane in particolare – stanno bruciando il migliore capitale, quello umano, a disposizione? Perché la (ormai trita e ritrita) “fuga dei cervelli” comincia già nell’estate post Maturità? Molte risposte alle tendenze che Carlo Trigilia, ex ministro alla Coesione e presidente della Fondazione Res, ci aveva anticipato nell’intervista pubblicata ieri sul nostro giornale, sono state approfondite a Palermo nella lunga mattinata di presentazione del Rapporto 2015 Nuovi divari. Un’indagine sulle Università del Nord e del Sud.
Prima di piangere – e di piangerci addosso – è bene precisare un concetto-chiave: l’università che “rimpicciolisce” è un fenomeno nazionale. Perché il divario, prima ancora che fra Nord e Sud è «fra l’Italia rispetto agli altri Paesi più avanzati», come ha premesso il curatore del Rapporto, Gianfranco Viesti.


 
Ma tutti questi trend negativi sono ancor più marcati al Sud e in Sicilia. «Nell’Isola – ricorda Trigilia – ormai quasi un terzo degli immatricolati “emigra”, a fronte di meno di un sesto di un decennio fa». Per essere più precisi: si è passati dai 30.760 dell’anno accademico 2003/04 ai 21.526 del 2014/15: “bruciate” 9.234 matricole pari al 30%. Scendendo ancora più in dettaglio: l’università di Catania è al sesto posto nazionale per immatricolati persi (-47,4%, ovvero 5.746 studenti; Palermo è decima a -43,1% (6.675 studenti) e Messina quattordicesima a -41% e 3.425 giovani. Il “calo del desiderio” accademico in Sicilia non è legato, come altrove, a ragioni demografiche (da noi la «diminuzione dei diciannovenni» è sotto la media meridionale), né alla flessione del numero di diplomati che vanno all’università.


Perché i giovani siciliani continuano a immatricolarsi. Ma altrove. Se appena 797 studenti, dal resto d’Italia, vengono a studiare nei tre atenei siciliani, il 30,2% delle 21.526 matricole del 2014/15, pari a 6.492 giovani residenti nell’Isola, ha la valigia in mano. Destinazione? Lombardia (22%), Lazio (20,3%), Piemonte (17,5%), Toscana (14%) ed Emilia Romagna (12,2%).

 

Non a caso Trapani (58,3%) e Ragusa (54,4%) sono le province meridionali con il più alto tasso di emigrazione negli atenei del Centro-Nord. E «un quarto degli studenti delle province di Siracusa, Agrigento e Caltanisetta» hanno scelto le facoltà “padane”. Sono tutte province senza un proprio ateneo. «Sembrerebbe che per questi immatricolati “emigranti” e per le loro famiglie la scelta di frequentare un’università fuori dalla Sicilia significhi soprattutto andare oltre il Sud: decisa la partenza, le distanze degli atenei di destinazione, al Nord o al Centro, sono considerate equivalenti, mentre pesano probabilmente altri fattori come la reputazione dell’ateneo o del corso di studio, le qualità della città e del mercato del lavoro». Diverso è il caso di Palermo, Catania, Messina e Enna, dove «più dell’80% degli immatricolati sceglie l’ateneo locale».
 


Ma non è soltanto una questione di quantità. Perché dal Rapporto Res emergono enormi problemi nella qualità degli atenei siciliani.
Il capitolo curato da Maurizio Caserta, docente di Economia a Catania, riassume il fil rouge che unisce tutte le criticità. Calo di immatricolazioni e giovani in fuga negli atenei del Centro-Nord, ma anche meno docenti (-24% dal 2008 al 2015, il 17,2% in Italia) che sono sempre più vecchi. Quasi il 65% dei professori ordinari in Sicilia aveva, nel 2014, più di 60 anni; il dato nazionale è 57%, nel Sud “continentale” il 58%.


«Un corpo docente più esiguo, più vecchio, concentrato in alcuni settori e poco competitivo può essere sia la causa sia l’effetto dell’esodo degli immatricolati siciliani», si legge nel Rapporto. Che fotografa un altro aspetto: «Neanche la valutazione della ricerca scientifica segna risultati meritevoli di nota per le università siciliane. Le valutazioni Anvur segnano, infatti, una condizione di evidente disagio, collocando l’intero sistema siciliano in fondo alle graduatorie nazionali».

 


Sicilia bocciata anche in materia di diritto allo studio, competenza della Regione, ieri rappresentata dall’assessore Bruno Marziano che ha preso appunti. «È estremamente preoccupante – scrive Res – il dato per cui solo il 32,3% degli idonei ha ricevuto una borsa di studio, a fronte del dato medio nazionale del 74,9 e del 52,4 nel Mezzogiorno». Pessimi anche gli altri servizi di supporto agli studenti. «Il sistema siciliano mette a disposizione 1.818 posti letto, che coprono solo il 13,9% delle esigenze degli idonei fuori sede, a fronte del 32.1% per cento nel resto del Paese». Meno servizi e meno qualità. E gli studenti (sarà la causa o l’effetto?) se la prendono comoda. I siciliani laureati fuori corso sono il 70% circa, in Italia il 53%.


 
Le soluzioni a misura d’Isola? Ne sono uscite diverse, dalla mattinata palermitana. «Abbandonare la cultura del dare lavoro e diffondere la cultura del creare lavoro», dice Gianni Chelo, “Regional Manager Sicilia” di UniCredit. «Un cambio di passo – invoca Gianni Puglisi, presidente della Fondazione Sicilia – nella cultura di partecipazione, gestione e di responsabilità verso i giovani, le famiglie, i territori e le loro istituzioni». Giovanni Manfredi, presidente della Crui, dà uno sguardo d’orizzonte: «Manca una politica nazionale, nessuno dice che università vogliamo». Magari dovrebbe essere senza quella dose di «autoreferenzialità e incapacità di ascoltare» di cui parla Luigi Federico Signorini, vice direttore generale di Bankitalia, nell’auspicare un «recupero del capitale umano». E la fondazione Res, per bocca di Trigilia, chiede «un programma pluriennale di intervento per il rilancio del sistema universitario del Mezzogiorno». Dunque «la via di uscita dalla spirale perversa» sta negli «interventi che separino i meccanismi di finanziamento ordinari degli atenei dai problemi di recupero delle condizioni di efficienza, che possono essere invece considerati come un obiettivo di specifiche politiche di sviluppo e coesione, e come tali possono attingere alle risorse nazionali ed europee destinate a questi interventi». Così magari in Sicilia, un giorno, riusciremo ad avere più laureati di Muntenia e Západné. Ma non dormiamoci troppo. La Severozápad vuole risalire. E sentiamo giù il fiato (romeno) sul collo. twitter@MarioBarresi
 

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