Lasciare in oblio un pezzo di storia, di arte, di memoria significa calpestare la Sicilia. La sua identità, la sua popolazione. Ma è proprio la popolazione a dire no: da Palermo a Siracusa, passando per Agrigento ed Enna, e ancora Messina, Trapani, Ragusa, Caltanissetta e Catania sono tanti, troppi i tesori che rendono unico il patrimonio culturale dell’Isola e sono in balia di incuria, mala-burocrazia e indifferenza come denunciano gli abitanti di città e borghi. Monumenti protagonisti di restauri infiniti, mai avviati o, ancora, di lavori completati e poi abbandonati a se stessi: emblemi di sperpero di denaro pubblico, di incapacità gestionale e disinteresse. Non solo i “gioielli” fuori dai tour turistici sono in condizioni di disfacimento come, solo per citarne alcuni, il parco archeologico di Sabucina nel Nisseno o l’antica città di Megara Hyblaea nel Siracusano.
Ma nel viaggio alla riscoperta del patrimonio siciliano spiccano i grandi “gioielli” in abbandono. L’emblema è la Cattedrale di Agrigento che scivola, letteralmente, verso il fondo del colle su cui sorge e attende la sua messa in sicurezza, promessa in occasione di campagne elettorali et similia, da decenni. «È il cuore della nostra terra di cui rappresenta il simbolo civile e religioso – commenta il cardinale Francesco Montenegro scuotendo la testa davanti alla magnificenza del monumento sfregiato – È una chiesa chiusa al culto, dimenticata nonostante gli appelli di questi ultimi 15 anni e le promesse». Ma il cardinale voluto da Papa Francesco non si arrende. E davanti all’impasse delle pubbliche amministrazioni, è la chiesa ad aver partecipato a un bando per la messa in sicurezza della Cattedrale con un progetto redatto dal prof. Panzeca. Ed ecco una nota dolente del patrimonio culturale siciliano: per la salvezza dei tesori in oblio servono progetti. O meglio, serve dar seguito alla grande mole di progetti fermi nei cassetti degli enti pubblici.
Il Teatro greco di Siracusa ne è un triste esempio: per il suo restauro considerato urgente negli anni Novanta, occorrevano 4 milioni di euro secondo un progetto poi dimenticato nei cassetti della Regione. Oggi ne servono molti di più visto che nulla è stato fatto e – di certo – servirà anche un nuovo, costoso, progetto. E così per molti altri monumenti dell’Isola come commenta Gianfranco Zanna, presidente di Legambiente Sicilia. «La Regione non si assume la responsabilità di gestire i tesori siciliani che, lentamente, vanno a morire». Lo dice davanti alla black list di conventi, chiese, palazzi storici in abbandono: da Palazzo Scibene a Palermo al Teatro di Taormina. «Le associazioni di volontariato fanno la loro parte con entusiasmo ma certo non basta – commenta Giulia Miloro, presidente dei Fai regionale – Abbiamo aperto nel 2002, dopo decenni di abbandono, Forte Gonzaga a Messina e lo abbiamo consegnato alla Regione ma non è servito: il monumento è di nuovo in degrado».
E non sono soltanto i monumenti ad essere a rischio. «Il cuore di molte città sta morendo – dice Leandro Janni, presidente regionale di Italia Nostra – A Caltanissetta la situazione è grave, gravissima. Il patrimonio storico-abitativo è in disfacimento e nessuna amministrazione, tra quelle succedutesi dagli anni Sessanta ad oggi, è stata in grado di portare a compimento un progetto di recupero del centro storico. Una responsabilità pesante. Una responsabilità da noi denunciata tante volte». E allora cosa fare davanti a tanto degrado? «Mettere gli enti locali e i loro dipendenti nelle condizioni di lavorare – dice il presidente della Fondazione Unesco, Angelini – Questo costante valzer degli assessori regionali, ad esempio, è dannoso: fa sì che gli operatori dei beni culturali lavorino secondo sistemi frammentari con governance che cambiano ogni sei mesi e questo finisce per mortificare anche le intelligenze e professionalità siciliani che ci sono. Abbiamo troppi musei e ciò assorbe troppe risorse: è come nella sanità dove esistono tanti piccoli ospedali che sono solo un costo e una bandiera per il politicante locale. Bisogna liberarsi da questo concetto gestionale che assorbe tutte le risorse e ipoteca anche quelle straordinarie come i finanziamenti aggiuntivi in Sicilia non destinati a investimenti ma a copertura di attività del tutto ridondanti rispetto alla funzionalità dei nostri servizi.
All’interno di questo, i beni culturali faticano a produrre perfomance rilevanti e mentre buona parte potrebbe autoreggersi senza bisogno di contributi ma garantendo valorizzazione e conservazione, questa strada è preclusa dal primato del lavoro improduttivo che viene prima di ogni altro investimento che da una logica aberrante microsindacale che non permette anche la funzionalità nell’interesse dell’utente. Bisognerebbe avere chiaro l’orizzonte del nostro sistema di gestione e riordinare il settore, le risorse e tutto il personale della Regione. Serve un piano industriale, un piano culturale della Sicilia che metta al primo posto l’efficienza combinata con la migliore fruizione e promozione del patrimonio con un salto tecnologico e organizzativo. Inoltre bisognerebbe avere uno scatto d’orgoglio come a livello nazionale con la scelta di direttori-manager sul mercato europeo per la gestione dei nostri siti e poli culturali. In Sicilia bisogna costruire e aggregare poli culturali ed espositivi superando la frammentazione che la connota. Insomma, bisogna lavorare e far lavorare».