La Natività su un barcone non è una trovata inedita. Ma, visto che l’abbiamo scoperta sotto casa (nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo, a Catania) ha un significato e un valore ancor più degni di essere raccontati. E contestualizzati.
La didascalia della foto di Orietta Scardino è semplice: Giuseppe, Maria e il Bambinello, a bordo di una zattera, cercano riparo nei pressi di un porto. Che, anche per loro, è chiuso. «Tornate nel vostro Paese!» e «Prima gli italiani» sono i gli striscioni ostili allo sbarco, un ossimoro rispetto alla naturale apertura di una città di mare. Alle spalle del molo, separata da un filo spinato, c’è l’altra città. Quella del Natale senza cuore, delle vetrine sfavillanti e delle sagome blu (tutte uguali) in pellegrinaggio nei centri commerciali.
Per chi si rivede negli slogan xenofobi del porto magari sarà un presepe “buonista”. Non per noi. Che – ora si passa dall’allegoria alla cronaca – raccontammo proprio da lì la disperazione dei migranti trattenuti sulla “Diciotti” per ordine del Viminale. Con il ministro Salvini indagato (ad Agrigento) e poi archiviato (a Catania) per quei fatti.
È una foto da dimenticare, nell’album di un anno che sta per finire, quella dei 177 “prigionieri” della nuova politica sull’immigrazione. Che sazia la pancia degli impauriti, ma – come dimostra anche il presepe catanese – alimenta la sana rivolta civile di chi è ancora convinto che accogliere sia un valore, prima ancora che un precetto laico.
Ecco perché in questa provocatoria Natività manca qualcosa. Le migliaia di persone che – nei giorni in cui Catania assurse a capitale dell’Italia salvinizzata – manifestarono pacificamente il loro sdegno. Ci sarebbe piacerebbe vederli, questi “pastorelli”. E non perché a Natale siamo obbligati a essere tutti più buoni. Ma per regalarci una speranza: che oggi, per nascere, Gesù non abbia bisogno di chiedere il permesso. Di soggiorno.
Twitter: @MarioBarresi