«Sono sereno, adesso lo sono». Gaetano Tafuri rompe il silenzio. L’ex presidente di Ast, indagato nell’inchiesta “Gomme lisce” è stato interrogato giovedì a Palermo. E ora può sospirare: «In questi casi, quando il mondo ti crolla addosso, la frase di circostanza è “credo nella magistratura”. Io ci ho sempre creduto, anche per ragioni di sangue, di dna. Ho trovato un giudice attento, preparato, con voglia di comprendere. I tempi della giustizia possono essere più o meno lunghi, ma sono fiducioso».
«Non è corretto entrare nei dettagli. Mi limito a dirle che non si parla di corruzione, né di clientelismo e nemmeno di falso in bilancio. A me su 22 capi d’imputazione contestano due retrodatazioni di verbale, di cui una riguarda la designazione di un sindaco, poi non approvata dalla Regione».
Quel sindaco secondo l’accusa sarebbe stato decisivo per truccare i conti.
«Quel sindaco era già in Ast. E contestano una differenza di cassa, nel 2018, di circa 210mila euro su 100 milioni di euro di bilancio, poi riportata nel 2019. Non sono numeri artefatti, ma disallineamenti dai flussi di cassa delle sedi periferiche poi trasmessi alla Regione. Ma io fui nominato il 31 luglio del 2018. Ammesso che ne avessi avuto lo spirito, perché avrei dovuto coprire eventuali magagne precedenti?»
Eppure rassicurava Musumeci con un sms: «Caro Nello, tutto a posto…».
«Mandai quel messaggio 18 mesi dopo il mio insediamento. E il mio vanto era aver approvato tre bilanci degli anni precedenti. Nel 2018 scoviamo debiti pregressi di quasi 3,3 milioni. Cosa mi spostavano 210 mila euro? Nel 2019 c’è un attivo di quasi un milione. Ma gli uffici si accorgono di quello e di un altro errore contabile. Riapriamo la seduta di bilancio: 340mila euro di attivo. Nel 2020 l’azienda è davvero risanata. E posso sempre dirlo a testa alta. Anche sulla questione delle gomme, della quale non sono accusato, il giudice di dà soddisfazione: non volevo alcun cartello, ma chiedevo di estrometterla perché era venuto legittimamente meno il rapporto di fiducia con l’Ast. Non sono un delinquente, non ho truccato carte. E ho sempre detto la verità. Anche a Musumeci».
Il governatore le chiese più volte di rimuovere il direttore Fiduccia, ora finito ai domiciliari.
«Fiduccia veniva attaccato continuamente. Mi chiedevano di buttarlo fuori, ma mi hanno costretto a tenerlo. Non l’ho messo io. Il giorno che arrivai chiesi le sue dimissioni. Era in età da pensione, le stava firmando. Poi è prevalso il realismo: avevo tre soli dirigenti, uno va su Lampedusa. Me ne resta uno e mezzo, quindi mi tengo Fiduccia. A Musumeci, il 4 febbraio 2021, chiesi un fabbisogno di personale. E ad Armao, davanti a testimoni, dissi più volte: dammi una deroga al blocco delle assunzioni, per un nuovo direttore. Facciamo i concorsi in Svizzera, ma facciamoli, perché ho 60 autisti che vanno in pensione: devo sostituirli. E se non ho gli strumenti per farlo, devo prendere gli interinali ed è un ricatto sociale. Questa vicenda magari sbloccherà la legge sulle assunzioni: come Sant’Agata, i cancelli dopo che hanno rubato il tesoro».
Ma intanto Fiduccia rimane al suo posto fino all’arresto, nonostante tutto.
«Se Musumeci chiede di revocarlo, ma non mi dà gli strumenti. allora penso che ci sia un problema personale».
Quale?
«Era istigato da una sigla sindacale, l’Ugl, il cui segretario è amico personale del governatore, entrato in rotta di collisione con Fiduccia, come più volte mi dissero Falcone e Armao che sollecitavano pure la revoca. Musumeci un giorno mi chiese la sua testa davanti a Falcone, Intravaia, Gargano e Bellomo, ma io presi le difese di Fiduccia per la brutalità con cui si rivolse al direttore. Musumeci non mi ha mai detto: “Caccialo perché sta combinando porcherie”. Mi diceva solo: “Caccialo”. Sembrava una richiesta dalla connotazione politica».
Musumeci bloccò anche il suo progetto della compagnia aerea targata Ast.
«Ci tenevo tantissimo: il più bel progetto autonomista che una Regione autonoma può mettere in campo. Non c’era alcun appalto, né bacino di voti, come dimostrano le carte. Ma solo 80mila euro per il Coa, la patente di volo. Ottenuta la quale il governo doveva decidere la strategia: dalla compagnia all’accordo con soci privati, fino al “facci una cornice!”. Ma Musumeci, con tono ben poco presidenziale, mi disse: “Tu devi stare con due piedi in una scarpa”. Senza darmi alcuna ragione, men che mai che c’era del marcio. Armao e Falcone provarono a convincerlo, ma lui non ne volle sentire. Allora la sensazione è che si fosse ingelosito perché l’idea non era sua».
Magari l’idea piaceva a Fiduccia che voleva fare assumere lì la figlia…
«Ha sbagliato, è censurabile. Non ha bisogno di essere difeso da me, ma s’è comportato, sbagliando, da padre che pensava di sistemare la figlia che non sarebbe mai stata assunta.
Fiduccia non ha bisogno di essere difeso da lei, ma lei lo sta difendendo…
«Io mi sento un uomo perbene. Chiamatemi fesso o stupido, ma per me Fiduccia è una persona buona. Magari con fare esuberante e ruvido. Ma in due anni di intercettazioni non c’è un solo maneggio di denaro».
Lo sta difendendo…
«Allora: bando alle ipocrisie. Lui è uomo, in questo momento disperato, che si sente dire “fai i nomi o ti querelo”. Cosa dovrebbe fare? Lui, intercettato, tira in ballo nomi altisonanti, paradossalmente molti di quelli che ne chiedevano la revoca. Fiduccia mente? Millanta? Non lo so… Tutti questi che puntano il dito su di lui, quante volte hanno bussato alla sua porta?».
Lo dica lei. Sapeva delle richieste che arrivavano al suo direttore?
«No, ma assolutamente no!».
Ha mai saputo del “papello” che Fiduccia dice di aver ricevuto all’Ars?
«Non me ne ha mai parlato. Io potevo avere sospetti, ma niente di più».
Ma nell’intercettazione col suo vice, Dalì, emerge la sua consapevolezza del diffuso sistema delle raccomandazioni dei politici…
«E meno male che è un’intervista e non un interrogatorio! Sì, c’è quell’intercettazione. Ma ne parla Dalì. E io ero incazzato, dicevo che queste raccomandazioni sono insopportabili».
Insopportabili, ma c’erano. Eccome.
«Se c’erano, io ero il “signor no”. Dicevo sempre di no. Con me hanno mollato. Quelli dell’agenzia non so come sono fatti in faccia. Posso lanciare una sfida: se c’è un solo interinale che mi abbia incontrato o conosciuto prima di essere assunto, si faccia avanti».
E non conosceva neanche i due che il suo amico di partito Di Mauro le chiedeva di «avvicinare» da Enna?
«Lo chiedeva per ragioni familiari. E gli risposi: ne parliamo a settembre».
Anche Lombardo, è citato nelle carte per un presunto raccomandato.
«Quel nome non lo conosco. Lombardo non mi ha mai segnalato alcuno».
E gli altri?
«Molti, quasi tutti. Un importante onorevole, all’inizio del mandato all’Ars mi disse: “Presidente, io di interinali ne vorrei 15”. E io gli risposi: “Faccio l’avvocato, nella mia famiglia ce ne sono da ben cinque generazioni e tutte le donne fanno i magistrati”. Mi salutò con un sorrisino e andò via».
E perché non l’ha denunciato prima?
«Non sono accusato per le raccomandazioni. Ma ho detto al pm che, se vuole sentirmi, in altra veste, sono disposto a parlare».
Perché, poco prima che scoppiasse lo scandalo, ha lasciato l’Ast? Al suo leader Lombardo magari non è utile un “signor no” in quel posto?
«Un ragionamento politico: io ho dato il mio contributo. Ne parlai con Lombardo, in presenza di Santo Castiglione, che aveva l’aspirazione di prendere il mio posto. Se fossi rimasto all’Ast per i prossimi tre anni non avrei potuto fare più altre cose».
Come ad esempio candidarsi a sindaco di Catania?
«Si voterà un po’ dappertutto, quest’anno e il prossimo. Anche a Catania, ma prima ci sono Regionali e Politiche. Mi gratifica che Lombardo mi consideri un suo cavallo di battaglia, ma ci sono prima le dimensioni di famiglia e professione da considerare».
L’inchiesta non la azzoppa un po’?
«L’onda di marea è stata altissima. Ma quando prendi una “timpulata”, più sei cresciuto e più arriva alta. So come difendermi, sono davvero sereno».
Twitter: @MarioBarresi