La richiesta dell’allora procuratore di Marsala Paolo Borsellino porta la data del 23 gennaio 1990 e arriva dopo una lunga indagine svolta da un poliziotto di razza come Rino Germanà che, già alla fine degli anni ’80, aveva capito che a comandare a Castelvetrano fossero due fedelissimi di Totò Riina, don Ciccio Messina Denaro e suo figlio Matteo.
L’investigatore, anni dopo sfuggito miracolosamente a un attentato, e il magistrato, ucciso nel ’92, misero nero su bianco i loro sospetti e chiesero al tribunale di Trapani di disporre per don Ciccio Messina Denaro la misura della sorveglianza speciale. Ma per i giudici, a carico del capomafia non c’erano elementi sufficienti per arrivare a una dichiarazione di pericolosità sociale.
Il procedimento, dunque, si concluse con un non luogo a procedere preceduto da una serie di considerazioni che a distanza di anni lasciano di stucco. Era il luglio del ’90, quell’estate Riina la trascorse con gli amici di Castelvetrano. A ottobre Borsellino emise un mandato di cattura per don Ciccio per associazione mafiosa, ma il padrino si era già dato alla macchia. E latitante rimase fino al 1998, quando una telefonata anonima alla polizia annunciò che c’era un cadavere sul ciglio di una strada. Era il boss, stroncato da un infarto, pronto per la sepoltura.
Ma se per Germanà e il procuratore la mafiosità di don Ciccio era di tutta evidenza, diverso fu il giudizio del tribunale. Secondo i magistrati «le notizie relative agli asseriti rapporti del proposto con appartenenti a consorterie mafiose» erano “incontrollabili» e «non certamente all’origine della presunta pericolosità qualificata». E che la figlia Rosalia (arrestata due settimane fa per mafia ndr) fosse sposata con Filippo Guttadauro, era ininfluente. Anzi per il tribunale sulla “trasparente personalità di Guttadauro (al momento all’ergastolo bianco ndr) non c’era alcun ombra di dubbio». Il collegio non aveva da ridire nemmeno sul patrimonio del boss, che di mestiere faceva il custode dei campi per la famiglia D’Alì (uno dei D’Alì, senatore di Fi sarà poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa).
«I documenti acquisiti e quelli prodotti dal proposto – scrivevano – sono idonei a provare la provenienza lecita del patrimonio immobiliare … che risulta essere il frutto di assidua lunga e operosa attività lavorativa». Don Ciccio viene decritto come un risparmiatore “oculato», capace di investimenti realizzati grazie ai soldi ereditati dai genitori e grazie a un mutuo contratto con la banca. Tutto comprato col denaro guadagnato lecitamente dunque e nessuna sproporzione con i redditi leciti: il lavoro da campiere dei D’Alì, «la produzione di olio e di uva, la partecipazione societaria a una società vinicola e una pensione a carico dell’Inps».
Dei traffici di droga e delle attività illegali che hanno consentito ai Messina Denaro di costruire un impero economico neppure il più lontano sospetto.
Il decreto, smentito dai fatti, porta la firma di Giuseppe Barracco, nel frattempo morto, e Tommaso Miranda, presidente di sezione del tribunale a Napoli ed estensore della decisione. Del collegio faceva parte anche Massimo Palmeri, attuale procuratore di Enna, in corsa come procuratore aggiunto a Palermo.
«Ho certamente partecipato alle udienze camerali del procedimento. Relatore era un collega che illustrò a me e al presidente le sue conclusioni. Il collegio ha poi deliberato, ma non ho scritto io le motivazioni, tanto che il decreto porta la firma solo del presidente e del collega estensore», dice Palmeri.
Il magistrato, che sottolinea il ruolo marginale avuto nella vicenda, aggiunge: «la nostra decisione fu impugnata dalla Procura di Trapani e la corte d’appello di Palermo, tempo dopo, annullò il decreto, stabilendo che l’allora procuratore di Marsala non era legittimato alla proposta».
«E’ giusto sottolineare – aggiunge – che all’epoca del provvedimento ci mancavano conoscenze essenziali sulla figura di Francesco Messina Denaro».