PALAGONIA – «M’è scappata la frizione… È stato un incidente, ma, ve lo giuro, non volevo fare del male a nessuno». Nonostante la stanchezza, dopo due giorni e mezzo di ricerche senza sosta, i carabinieri rimangono impassibili. Neanche una cellula del loro volto mostra il naturale sbigottimento davanti all’ultima incredibile versione dell’interrogato.
L’hanno preso. La caccia al “lupo solitario” s’è conclusa alle 13,45 di ieri: Gaetano Fagone, 52 anni, è stato fermato in un curtigghiu di Palagonia. A poche centinaia di metri dall’altro cortile – via Savona – dove venerdì notte s’era trasformato in un aspirante terrorista, travolgendo una quindicina di vicini seduti a tavola all’aperto, uccidendo una donna (Maria Napoli di 87 anni) e ferendo altre sette persone, fra cui due bimbi.
Dopo essere riuscito a nascondersi talmente bene nella sua “tana” (le impervie campagne di contrada Tre Fontane, dov’era stata ritrovata la Fiat “Punto” usata prima per il folle raid e poi per la fuga), Fagone è stato individuato e fermato in paese. Dopo aver percorso lo stradone che dalla zona degli agrumeti conduce al centro: primo avvistamento in viale Resistenza Partigiana, poi nei pressi della pizzeria “Novecento”. In pochi minuti il centralino dei carabinieri viene subissato da decine di telefonate. Un cittadino gira anche un video che poco dopo comincerà a circolare sui social: si vede Fagone – polo blu, pantaloncini di jeans e scarpe da ginnastica azzurre, con in mano una bottiglietta d’acqua e un telefonino – che si aggira, con aria circospetta, fra i vicoli di Palagonia. Il filmino va su WhatsApp alla velocità della luce, in pochi minuti – il paese è piccolo e la gente (ora sui social) mormora – si sparge la voce. Che diventa certezza: «È tornato, è tornato».
Nonostante fossero stati “depistati” da segnalazioni anche contraddittorie fra di loro, i carabinieri riescono finalmente a individuare Fagone. «Saliva da via Penninello, poi ha preso via del Nord ed è arrivato qui in via Chiocciola – racconta una testimone – dove s’è visto bloccato dai carabinieri». Ha provato a tornare indietro, ma ha trovato altri militari dell’Arma che arrivavano proprio dallo stesso percorso appena compiuto dal fuggiasco. «Non ha opposto resistenza, l’hanno preso lì», dice la giovane palagonese indicando un budello di strada intasato da una motoape.
La latitanza di Fagone finisce 60 ore dopo l’omicidio e la strage, ipotesi di reato per le quali la Procura di Caltagirone ha disposto il fermo. «È stato certamente un gesto volontario: ha travolto le famiglie dei vicini con l’auto e poi ha fatto marcia indietro cercando di colpire le persone», afferma con ampio margine di certezza il procuratore Giuseppe Verzera. Ad ascoltare le spontanee dichiarazioni dell’indagato arriva in caserma il pm Natalia Carrozzo. Assieme a lei il comandante provinciale dei carabinieri, colonnello Raffaele Covetti (sin dal primo momento presente sul campo), e il comandante della Compagnia di Palagonia, il tenente colonnello Felice Pagliara. Quest’ultimo, quasi irriconoscibile in tenuta da acchiappa-latitanti “agreste”, è visibilmente provato da due giorni e mezzo di ricerche non stop. «È stata dura, ma alla fine ce l’abbiamo fatta: sapevamo che era vivo e che non poteva nascondersi in eterno», l’unica legittima concessione fuori dal “capitolato” delle frasi di circostanza.
Quella che il ricercato non si fosse suicidato, magari buttandosi dentro uno dei tanti pozzi della zona, più che la «sensazione» rivelata 24 ore prima ai cronisti, era una quasi-certezza. Nelle interminabili giornate da emulo di Matteo Messina Denaro, infatti, il killer di Palagonia s’è tradito soltanto una volta. Quando, incrociando domenica pomeriggio una donna su una stradina di campagna, le avrebbe chiesto di poter fare una chiamata dal suo cellulare. Verifiche sono in corso sull’eventuale destinatario della telefonata. Dal procuratore Verzera, intanto, arrivano le congratulazioni ai militari dell’Arma «per il grande lavoro fatto svolto con abnegazione e professionalità in un contesto difficile».
Nel frattempo, per un paio d’ore, Fagone viene sentito in una stanza del comando di Palagonia. L’aspirante stragista è assetato. Chiede dell’acqua, gli fanno arrivare anche un panino che divora in pochi secondi. Nei due giorni e mezzo di latitanza dice comunque di aver bevuto, attingendo dai pozzi di quelle campagne che conosce come le sue tasche. Ha mangiato qualcosa: prugne e fichidindia raccolti qua e là. È vestito con gli stessi abiti che indossava la sera del folle raid nel quartiere, non ha un centesimo in tasca e sostiene di non aver cercato né avuto coperture (ma su questo aspetto le indagini continuano).
I carabinieri, fra mezze ammissioni smozzicate, sono convinti che il ritorno a casa di Fagone fosse dovuto non tanto alla stanchezza per la latitanza, quanto al disperato tentativo di recuperare le chiavi della sua auto (un’altra “Punto”) per provare la fuga-bis lasciando Palagonia. «Sono stato da solo, ho avuto paura di tornare», ripete intanto lui.
A questo punto il colloquio entra nel vivo. Paura di che? Di cosa? E Fagone, descritto come «lucido nel suo tentativo di ricostruzione», cambia più volte versione. Ma in nessuna di queste confessa di aver volutamente tentato una strage. All’inizio prova addirittura a negare l’accaduto, ma poi ammette di ricordare quello che è successo venerdì sera. Lui, a bordo della “Punto” del padre quasi novantenne; la tavolata allegra e spensierata dei vicini; l’auto che piomba addosso a decine di persone in un clima di terrore; le urla, il fuggifuggi, il sangue…. «Ma è stato un incidente, non volevo uccidere nessuno», continua a giustificarsi Fagone ogni volta che si arriva al punto-chiave. «Mi è scappata la frizione, non volevo uccidere nessuno», è la versione più balzana fornita a pm e carabinieri. E ancora il refrain auto-assolutorio: «Non l’ho fatto apposta, non volevo fare del male a nessuno».
E allora perché è fuggito dal luogo dell’«incidente»? Perché s’è nascosto come un boss ricercato? Qui la versione del fermato si fa ancora meno credibile. «Avevo paura della reazione dei vicini, che non avevano capito che era stato un errore, che io non l’ho fatto apposta…», è la risposta dell’uomo già inchiodato dai testimoni che hanno raccontato le sue ripetute manovre avanti e indietro nel vicolo per completare l’opera. Poi una (goffa) esternazione di una sorta di sindrome di accerchiamento: «Quelli ce l’hanno con me, ce l’hanno sempre avuta con me…». Eppure i vicini, sentiti in questi giorni dai carabinieri, hanno smentito l’esistenza di precedenti liti o questioni in sospeso.
Davanti al muro dell’indagato s’infrange ogni ricerca del movente. Resta in piedi l’ipotesi del «fastidio» che avrebbe provato nel sentire il vociare conviviale del vicinato, ma in questo momento poco importa. Può bastare così. I precisi racconti delle vittime, le 60 ore da uccel di bosco, l’ammissione di essere stato lui a bordo di quell’auto impazzita. C’è quanto serve per disporre il fermo per omicidio e strage. Fagone (pregiudicato per tentativi di estorsione ai suoi genitori, nel periodo in cui, dopo la fine del suo matrimonio, sarebbe caduto nel tunnel della droga) viene portato al carcere di Cavadonna, a Caltagirone. In attesa dell’interrogatorio del gip – forse domani stesso – e dell’eventuale convalida del fermo. Non ha scelto un suo avvocato di fiducia, ha accettato il difensore d’ufficio (Andrea Scollo) che non era presente durante il colloquio.
All’uscita dalla caserma più giornalisti che palagonesi. Nessuno lì a gridargli «assassino» o «infame» in una città ancora sotto shock. Niente “gloria” per il terrorista della porta accanto.
Twitter: @MarioBarresi