il caso
Il magistrato e l’armadietto pieno di bottigliette di pipì: imbarazzo in Tribunale a Catania
In ufficio trovate decine di contenitori plastica con un «liquido di colore giallastro». Il giudice: «Promiscuità nei bagni del tribunale nella fase dura di Covid temevo di contagiarmi»
È successo – è successo davvero – al tribunale di Catania. Giusto un mese fa, negli uffici della quinta sezione civile, al secondo piano lato ovest di piazza Giovanni Verga. È successo, incidentalmente, per accogliere i nuovi funzionari Upp (Ufficio per il processo), oggetti misteriosi concepiti dalla ministra Marta Cartabia per velocizzare i tempi della giustizia con i fondi del Pnrr. A Catania, sede di un progetto-pilota a livello nazionale, ne sono stati destinati 130 in tutto: 63 per il settore civile, di cui 10 alla quinta sezione. Prima incombenza: bisogna almeno farli sedere. Ridisegnando gli spazi di lavoro, in un ambiente già angusto.
È successo, dunque, che, per ricavare posti aggiuntivi nella stanza condivisa da alcuni magistrati, si deve spostare un enorme armadio-libreria con vetrina, utilizzato da un giudice. E, per evitare che gli operai addetti al trasloco possano spostare mobili con dentro delicati fascicoli giudiziari, una collega si premura di aprire le ante inferiori, le uniche non chiuse a chiave. È successo, con enorme stupore dei presenti, che si scopre che più d’un ripiano e mezzo del mobile è occupato da decine di bottigliette di plastica da mezzo litro. Dello stesso tipo, delle stesse marche di quelle del distributore automatico del tribunale. Dentro non c’è acqua minerale, bensì quello che verrà ufficialmente definito «un liquido di colore giallastro».
È successo, com’è ovvio che sia, che il trasloco viene interrotto per sopravvenuto mistero al palazzo di giustizia. La “scena del crimine” non può essere contaminata. Almeno fino a quando non si trovino le risposte ad alcune domande. Cosa contengono quelle bottigliette? Da quanto tempo sono lì, visto che alcune recano la data di scadenza nel 2021? E, soprattutto, chi le ha messe dentro quell'armadio?
È successo, com’è giusto che sia, che della faccenda viene informato il presidente della quinta sezione civile, Francesco Cardile, il quale a sua volta segnala riservatamente il caso al presidente del tribunale, Francesco Mannino. Sentiti i testimoni del ritrovamento, compreso il consegnatario del tribunale, e anche alcuni magistrati. La versione di tutti è identica. Mannino e Cardile, qualche giorno dopo, effettuano un sopralluogo nella stanza del mistero. Riaprono il mobile e non possono che constatarne il contenuto: un numero imprecisato di bottigliette dal contenuto giallastro, sistemate in verticale accanto ad alcuni fascicoli.
È successo, perché a questo punto non poteva essere altrimenti, che viene chiamato in causa l’“utilizzatore finale” dell’armadio. Il magistrato ammette che le bottigliette sono sue. Non soltanto le decine scoperte per caso, ma anche quelle conservate in un altro mobile della stanza, chiuso però a chiave. E poi, confermando quanto già detto con brusca informalità all’imbarazzata collega all’indomani del ritrovamento, rivela la natura del contenuto. «È mio materiale liquido organico», confessa. Per poi raccontare quanto fosse impaurito, soprattutto durante la fase più pesante dell’emergenza Covid, dal rischio di «promiscuità» nei bagni del tribunale, in uso ai magistrati ma comunque aperti al pubblico. Da qui promana l’abitudine di fare i propri bisogni a distanza di sicurezza dalla toilette, oltre a quella di disinfettare con l’alcol la sua scrivania ogni giorno all’arrivo in ufficio. Domanda scontata: ma perché quelle bottigliette sono ancora lì? Talvolta, è la giustificazione togata, «per leggerezza e sbadataggine» non le aveva portate via. Perciò si sono accumulate nel tempo. La storia finisce con l’impegno (subito assolto) con i vertici del tribunale: rimuovere, di persona personalmente, il “corpo del reato”.
È successo, come è prevedibile che sia, che lo strano caso del magistrato “imbottigliatore di pipì” fa presto il giro del palazzo. Per settimane non si parla d’altro. Si diffonde persino, di chat in chat, qualche emblematica foto dei reperti rinvenuti nell’armadio. Ma l’identità del diretto interessato, all’esterno del palazzo, resta un omissis. Magari per istinto di autoconservazione della specie, altrimenti detta casta. Ma qui Luca Palamara, (ex) toga espiatoria d’ogni peccato, non c’entra. Tanto più, come si apprende dai pochi spifferi fuoriusciti da piazza Verga, che il giudice in questione sarebbe «uno fra i più competenti, puntuali ed equilibrati» dell’intero settore civile.
È successo, e nessuno lo può smentire, ma ora che succederà? Poco più di nulla, al di là di un’ipotesi di procedimento disciplinare per il giudice (atto dovuto, ma con ben pochi elementi su cui fondare l’iter) e della boutade di qualche collega pm buontempone che in corridoio si diverte a ipotizzare, ai sensi del codice dell’ambiente, la fattispecie di abbandono di rifiuti. È successo – è successo davvero – al tribunale di Catania. Ma il caso è chiuso. O quasi. Resta però un dubbio; poco meno d’un legittimo sospetto. Che ne sarà mai stato, nei lunghi e tormentati mesi della pandemia, dell’altro materiale organico, quello non liquido, del magistrato terrorizzato dal Covid? Twitter: @MarioBarresiCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA