CALTANISSETTA – «Mi chiamano Antonello».
Così, dopo aver declinato le sue generalità, l’indagato Montante Antonio Calogero comincia l’interrogatorio-fiume davanti al gip di Caltanissetta.
Dalle 15,35 alle 22,45, con dentro qualche pausa. Martedì scorso, all’indomani dell’arresto a Milano dalla polizia con l’accusa di guidare un’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Antonello Montante decide di rispondere alle domande del gip Maria Carmela Giannazzo. In una stanza del tribunale di Caltanissetta, accanto a lui gli avvocati Nino Caleca e Giuseppe Panepinto; di fronte il procuratore Amedeo Bertone e i pm Gabriele Paci e Maurizio Bonaccorso.
«Non ho timore a rispondere su qualsiasi domanda. Poi dove ho responsabilità sono pronto a pagare…», dirà il paladino di una lunga era dell’antimafia siciliana oggi di fatto sott’accusa.
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Montante nega su quasi tutte le accuse. E, incalzato dalle domande del giudice e dei pm, prende le distanze da tutti gli altri indagati ritenuti componenti della «rete tentacolare di rapporti». A partire dal fedelissimo Diego Di Simone (fra gli arrestati), ex poliziotto poi assunto – su segnalazione di un prefetto, con le buone referenze fornite da vertici della polizia e magistrati – come responsabile della sicurezza di Confindustria, ritenuto un “piccione viaggiatore” dei dossier illegali confezionati per Montante violando i database riservati. Se De Simone «faceva delle cose che io non so, lui ha delle responsabilità», perché «io non ho mai ordinato a Di Simone una cosa».
Montante smentisce ogni complicità con gli altri “spioni” destinatari di misure cautelari. Dai poliziotti Antonio Graceffa («Non sapevo chi fosse») e Marco De Angelis (con lui solo «buongiorno e buonasera») all’ex comandante del nucleo di Polizia tributaria della Guardia di finanza di Caltanissetta, Ettore Orfanello (rapporti «molto confidenziali ma istituzionali»), fino al pezzo grosso Giuseppe D’Agata, ex capocentro della Dia di Palermo tornato all’Arma dopo un periodo nei servizi segreti, con il quale ammette «decine di incontri tutti istituzionali», ma anche qualche «cena insieme». L’imprenditore di Serradifalco nega di aver chiesto dossieraggi («Per me il dossier è una carpetta che raccoglie articoli di giornale»), ma anche di aver ricambiato con promozioni, trasferimenti e assunzioni di familiari.
Nega tutto, Montante. Anche di fronte a intercettazioni molto chiare. Persino sulla presenza di alcune prove schiaccianti rinvenute in quella che lui stesso, in un’intercettazione, chiamava «la stanza della legalità», il bunker segreto scovato dalla Squadra mobile nella villa di Serradifalco, “derubricato” davanti al gip in luogo dove «mangiavamo accanto con la porta aperta».
E annaspa sulle «strane coincidenze» di alcuni fascicoli trovati in quelle stanze. Prova ad attribuire ad altri la paternità dei dossier, balbettando che in pratica si trovassero lì “a sua insaputa”. Nonostante fossero nella sua abitazione, nella quale smentisce di aver mai effettuato le bonifiche che emergono chiaramente dalle carte. Anche se, ammette, «non cammino su una nuvoletta» e dunque confessa di aver notato «quell’antennino» all’altezza del bagno delle figlie. E dunque sapeva delle cimici piazzate in casa sua.
Ma sono tanti i «non so», così come le domande aggirate. E le contraddizioni. A partire da quella scritta, “Aud”, appuntata a margine di eventi (dal 1870 al 2015) rinvenuti nel suo enciclopedico diario. «Significa “audito”, già… è una cosa già discussa e per noi significa audita con la persona, significa diviso e già discussa, significa archiviata, per noi non ci siamo…». Ma Montante sembra in difficoltà quando il gip gli dimostra che molti eventi archiviati con quella sigla corrispondono a registrazioni audio, di alcune delle quali (come una telefonata fra l’ex assessore Linda Vancheri e il giornalista Attilio Bolzoni) sono state trovate anche fedeli trascrizioni; con un caso curioso degli investigatori che “registrano” l’indagato mentre lui registra una conversazione poi classificata come “Aud”. Tant’è che Montante, alla fine, abbozza: «Qual è il problema se io dico aud che significa ho registrato? Non è che è un problema se io registro…».
Messo all’angolo sulla galassia di super spioni, Montante è in difficoltà. E passa dalla difesa all’attacco: «A casa mia venivano tutti», dice. Una villa «non da ricchi ma diciamo discreta», la definisce. Tutti da lui. Pranzi e cene. Ma erano «solo istituzioni, non gentaglia» e «non si parlava di lavori o di vantaggi per me», ma «di informazioni che gli davamo sugli imprenditori, su cose che non andavano». E poi, quasi come se volesse cominciare a onorare la “promessa” fatta al fedelissimo Giuseppe Catanzaro (se l’inchiesta dovesse degenerare «non ce n’é pi nuddru», dice Montante intercettato) fa un elenco generico: «Venivano magistrati da soli, procuratori da soli, carabinieri da soli. Perché quando si arrestava, mi permetta, la Confindustria era un tesoro per tutti». Con vanteria finale: «Quando sono finiti i favoreggiamenti, che si concludeva l’indagine con le condanne, io ero il numero uno quando mi chiamava il Procuratore Generale». Un messaggio in codice per i pezzi dello Stato che hanno avuto a che fare con lui che ha «portato più di cento persone a denunciare e arrestare»?
E allora, posto che nega ogni responsabilità su «un’indagine della quale non sapevo completamente», perché è finito nell’inchiesta? Non è né il posto né il momento giusto per parlare dei suoi rapporti con i boss, ma Montante si dice «convinto», che «chi ha innescato questo meccanismo» (perché «non è stata la Procura o la squadra mobile, anche se ce l’hanno con me») non siano «persone della mafia» contro le quali sostiene di lottare da una vita. O meglio: non c’entra solo Cosa Nostra, ma «qualche lobby molto più forte». E cioè «un’organizzazione di mafia e massoneria». Gente che «abbiamo allontanato», perché, sostiene con orgoglio, «noi abbiamo la Confindustria che è una lobby chiara e trasparente».
Una «persona perbene», in fondo. Ma soprattutto «un traditore». Che «non è credibile perché s’è inventato una serie di cose con un obiettivo preciso». Così, senza che nessuno gliel’abbia chiesto, Montante definisce Marco Venturi. L’ex dirigente confindustriale ed ex assessore regionale, suo braccio destro e «intimo amico». Le dichiarazioni del primo grande accusatore di Montante, prima sulla stampa e poi nei tribunali e in commissione Antimafia, vengono ritenute credibili dall’accusa. Nell’informativa della Squadra mobile di Caltanissetta c’è un intero capitolo sui «riscontri» alle parole di Venturi. Eppure il suo ex pigmalione prova a ribaltare queste verità investigative. Con una tesi: lui «non è credibile per niente perché si è inventato una serie di cose in maniera artificiosa con un obiettivo preciso». E poi l’affondo: «Venturi è diventato il numero uno… Lui ha fatto l’assessore cinque anni a quindicimila euro al mese, macchine e lampeggiante, e faceva lavori pubblici con la sua azienda. E io me ne fregavo». Lui, «accontentato come un bambino», nell’autodifesa offensiva di Montante «continuava a farsi i suoi affari». A Venturi, nell’interrogatorio, l’ex sodale attribuisce anche legame con Massimo Romano, il re dei supermercati, fra gli arrestati di “Double Face”: i rapporti «sono molto stretti, di grandissima amicizia, vicinanza e frequentazione, anche in questi mesi, sono tutti insieme, si vedono, cenano e pranzano».
Quindi la storia dell’ascesa dell’ex delfino. «Venturi – racconta – dal ’96 in poi ha avuto sempre cariche associative grazie ad un rapporto buono che abbiamo avuto sempre insieme». Presidente di Giovani industriali, della Piccola industria regionale, della Camera di Commercio di Caltanissetta, «sempre su mia segnalazione». Poi racconta la sua versione della nomina ad assessore regionale. Durante la commemorazione della strage di Capaci, nel maggio 2009, quando a Palermo arrivò anche Emma Marcegaglia, in veste di presidente di Confindustria. L’allora governatore Raffaele Lombardo «chiese a me insistentemente di fare l’assessore», ricorda Montante. «Io sono contrario a fare politica, ho fatto il codice etico scritto» che vieta ai vertici di Confindustria cariche istituzionali. Ma Lombardo ribadì la richiesta a Marcegaglia, e lei «gli ha detto “No, Montante non si tocca, Montante deve fare Confindustria che lo sa fare bene”». A questo punto l’indagato fa entrare in scena Venturi. «Seppe di questa cosa e mi disse: “Ma non lo posso fare io?”. Quindi io chiamai Lombardo e ho detto: “Guarda, io non… Se vuoi, c’è Venturi”. Quindi volle parlare con Venturi e Venturi ha fatto l’assessore», racconta, «con un po’ di contrarietà da parte dei miei colleghi». Ma a un certo punto Confindustria rompe. «Io e Lo Bello (Ivan, all’epoca presidente di Confindustria Sicilia, ndr) ci scontriamo con Lombardo», rimembra Montante. Ricordando che «il Governo era il default totale», ma soprattutto che «lui aveva un’indagine pesante da Catania per associazione mafiosa». E così «Venturi esce fuori. E mi chiede: “Antonello, ma io come posso fare ora che sono senza?”». Così, ricostruisce, lo piazzò – parlando con Giorgio Squinzi – nel Cda del Sole 24 Ore, con «Venturi felicissimo».
Infine, l’ultimo gradino della scalata di Venturi: «Venne un giorno e mi disse: “Perché non posso farlo io il presidente di Confindustria?”». La riposta, rammenta, fu negativa. «Gli ho detto: “Marco, non lo puoi fare perché ci sono consensi più forti per gli altri”».
Ed è sulla replica dell’ex amico che l’imprenditore arrestato fa entrare in campo, nella sua sceneggiatura, l’altro accusatore: Alfonso Cicero, ex presidente dell’Irsap. Venturi, per convincerlo a nominarlo presidente di Sicindustria, avrebbe detto a Montante: «“Ma sai, perché potevamo fare una cosa importante, molto importante, e Cicero potrebbe fare il direttore generale. Siccome lì guadagna poco all’Irsap pigliando duemila euro al mese, potrebbe fare il direttore…”». E ciò, aggiunge malizioso, «Cicero me l’avrà detto sessanta volte, ma con i messaggi, con documenti… “Fammi entrare in Confindustria”». Ma gli disse di no perché «non aveva taglio economico, era un geometra di periferia che voleva accreditarsi dopo varie vicissitudini giudiziarie della sua famiglia». Ma, tracciando dell’accusatore un ritratto postumo, l’accusato è pesante: «Cicero faceva tutto, dava incarichi, dava soldi, dava incarichi per tutto lui, perché la sua ambizione era fare politica». A Cicero, davanti al gip, Montante attribuisce, fra l’altro, l’assunzione della moglie di De Angelis, oltre che la presenza di alcuni dossier nel bunker: «Erano persone che aveva denunciato lui».
La doppia vendetta, a questo punto, è completa. Venturi e Cicero, che «facevano come i bambini» e «gestivano quello che volevano». Marco e Alfonso, gli amici che «ogni lunedì venivano a casa mia, uno la mattina e uno la sera». I due “pentiti” del sistema Montante, tirati in ballo dall’ex leader con ricostruzioni (compresa «l’intercettazione pilotata fra di loro») tutte da dimostrare: «Mi denunciano perché non ho fatto fare il presidente regionale a Venturi e così Cicero non ha fatto il direttore di Confindustria Sicilia».
L’interrogatorio verte soltanto su alcuni aspetti della maxi-indagine: i reati legati alla rete di super spioni. Montante, in questa sede, non deve rispondere della corruzione nei finanziamenti illeciti per i quali è indagato in un altro filone. E dunque non parla di Rosario Crocetta, né dei tanti altri politici a lui vicini. Eppure, forse in modo ancor più subdolo rispetto alle parole su Cicero e Venturi, l’ex leader confindustriale trova il modo di citare due personaggi che negli ultimi anni hanno l’hanno pubblicamente avversato: Leoluca Orlando e Giancarlo Cancelleri.
Sollecitato da uno dei suoi legali sugli «incarichi» affidati a Michele Trobia (fra i quali, in un’intercettazione, si parla della consegna di borse di denaro a Totò Cuffaro, smentita dall’ex governatore che annuncia querele), Montante afferma che «io una volta sola ho dato soldi ad un politico, e basta più». E «lo posso giurare, perché non faccio lavori pubblici, non faccio appalti, non ho società, non ho finanziamenti, che sia chiaro». Il nesso appalti-sostegno elettorale indispettisce un po’ il giudice. Ma poi, nonostante il gip precisi che «non costituisce oggetto della misura che è stata emessa nei suoi confronti in questo momento», Montante torna su quell’unico finanziamento. «L’ho dato a più riprese a Leoluca Orlando. Poi ad un certo punto ho detto non sono…». La risposta viene troncata dalle voci di magistrati e avvocati che si accavallano. E il discorso si chiude qui.
E in un altro momento dell’interrogatorio, approfondendo la svolta nella Confindustria nissena, l’indagato lancia l’altro siluro sulla politica siciliana. Lo spunto è l’imprenditore Salvatore Lo Cascio. «Lo Cascio – racconta Montante – stava fallendo e si presentò da me Cancellieri, l’attuale leader di Cinque Stelle, da deputato delle Cinque Stelle, mi chiese un appuntamento. Io per due, tre volte non avevo tempo di incontrarlo. Un giorno mi venne a trovare in ufficio alla Camera di Commercio». Che voleva? Il leader M5s, al quale Montante aggiunge una “i” nel cognome, «mi venne a chiedere di Lo Cascio, se potevamo fare una attività forte verso il Tribunale per non farlo fallire perché era una situazione… perché lui era stato il magazziniere di Lo Cascio». La risposta sarebbe stata negativa: «Guarda, è una cosa contro di me». Purtuttavia, da presidente, avrebbe delegato un consigliere camerale la verifica dell’ipotesi di costituzione di parte civile «per vessazione della banca». Il verdetto: «Non si può fare niente». Chiosa Montante: «Quindi lì si è interrotto definitivamente, quindi c’è stata una… niente guerre con me direttamente, ma Cancellieri ha promosso una e… E da lì si rompe anche il rapporto con Cancellieri perché gli ho detto no».
Il gip annota: «Va bene, il rapporto con Cancelleri sinceramente non mi interessa. Scusi».
Ma il secondo “missile intelligente”, ormai, è già stato scagliato.
Twitter: @MarioBarresi