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Montante e le toghe: «Venivano a cena da me e non parlavamo di bici»

Di Mario Barresi - Nostro inviato |

Caltanissetta. Un’ossessione. O soltanto una sofisticata strategia difensiva fai-da-te. Magari entrambe le cose, una mistura che diventa un almanacco di messaggi all’esterno. Avvertimenti, per essere più chiari.

Nelle circa otto ore dell’ultimo interrogatorio, Antonello Montante – quasi sempre di sua iniziativa, senza che i pm di Caltanissetta glielo chiedano – fa entrare in scena decine di volte magistrati e pezzi dello Stato. Una tecnica, subdola quanto martellante, usata dall’ex paladino dell’antimafia siciliana per restare aggrappato a quello che definisce «il vostro mondo». Ma che considera anche suo. Non si dà pace, l’ex leader di Sicindustria osannato da ministri e procuratori. Ed è un flashback nostalgico, quando parla della cosiddetta (da lui, intercettato) “stanza della legalità”, nella sua villa di Serradifalco, dove teneva – secondo l’accusa – i dossier illegali raccolti dalla sua rete di spionaggio. «Lì dentro capitava di cenarci, venivano gli accusatori, le istituzioni…».

E quando il procuratore di Caltanissetta, Amedeo Bertone, gli chiede cosa intenda per «istituzioni» Montante non vede l’ora di scandire: «Qualsiasi istituzione che doveva essere una forza dell’ordine, poteva essere un magistrato». Il pm è tutt’altro che imbarazzato. E l’interrogato affonda il colpo. Seppur confuso e quasi balbettante: «… perché i vostri colleghi venivano a mangiare a casa mia spesso, ma non è che venivano a casa mia a mangiare per parlare di… di biciclette o motorini, parlavamo sempre protocolli, convinciamo questo a denunciare, attenzione che… Quindi si parlava sempre con l’obiettivo solo di massacrare il mondo. E questo lo sapeva tutto… Quindi non venivano a casa mia a cenare perché eravamo solo amici e ci davamo del tu, venivano a casa mia per parlare».

È ovvio che qualsiasi rapporto con l’indagato Montante ha una precisa dead line: per i comuni mortali è il 9 febbraio 2015, quando su Repubblica uscì la notizia sull’inchiesta per mafia. Ma l’asticella del tempo, per qualche addetto ai lavori che non poteva non sapere del fascicolo, va spostata a un periodo precedente. Eppure, ben prima che sapesse di essere inquisito, l’imprenditore coltivava una strana passione per le toghe. In una perquisizione del gennaio 2016, ordinata dalla Dda nissena, gli furono sequestrati dei dossier su alcuni magistrati. Un archivio elettronico in cui erano minuziosamente annotati appuntamenti (non solo istituzionali) e anche qualche corrispondenza su presunte richieste di raccomandazioni e appoggi vari. Su questi appunti hanno indagato sia la Procura di Catania sia il Csm: nulla di rilevante sui magistrati dal punto di vista penale né disciplinare.

Ma anche nel corso dell’interrogatorio dello scorso 8 agosto Montante prova a ripetere, in modo più subdolo, lo schema del dossieraggio. Come quando gli chiedono del suo “spione” di fiducia, Diego De Simone, «il nostro uomo all’Avana, quello che osserva tutto», per citare la definizione in un dialogo intercettato. «Segnalato Prefetto Caruso», scriveva Montante in un appunto, riferendosi a Giuseppe, ex questore di Palermo ed ex responsabile dell’Agenzia dei beni confiscati. «Allora, il prefetto Caruso è stato… il primo o il secondo che mi consegna il curriculum è stato il prefetto Caruso», dice al sostituto Stefano Luciani che lo incalza. Poi allarga il raggio: «Quindi me l’ha segnalato Alfredo Morvillo, il procuratore Morvillo uno dei primi, e… poi qualche altro procuratore, qualche altro procuratore, mi sembra che me ne parlò bene… bene il procuratore Pignatone, ma nel senso come… parlavamo no di raccomandazione, attenzione, noi parliamo di…». Montante sfrutta le domande sul suo braccio destro per tirare in ballo un altro magistrato: «No, non sono venuto… però sarò un… la persona più schifosa del mondo, per come è scritto lì, però sono rispettoso del vostro mondo, quindi significa non voglio sbagliare a mettere in difficoltà magari una cosa che si è inventato Di Simone, ha capito? Perché… ma io lo devo dire, perché non posso dirlo, non ho chi proteggere o non proteggere. Io sapevo che Di Simone andava a trovare a Maurizio De Lucia (attuale procuratore di Messina, ndr)… a Maurizio De Lucia in Dna e poi l’ultima volta mi disse, se è vero o non è vero, che era venuto in Sicilia a incontrarlo in Sicilia».

Montante, all’apice della sua carriera antimafia, si sentiva una sorta di “super-consulente” dei magistrati. «Mi chiamava tutta la Procura italiana, attenzione, perché… perché dobbiamo… in riferimento alle cose che mi chiedeva lei, delle istituzioni, a me mi chiamava sempre il procuratore di Reggio Calabria, di Roma, di Bologna, mi chiamavano e mi dicevano: “Attenzione, vedi che sulla Mafia Capitale…”. Questo è importante, dottore».

Nel verbale Montate fa scivolare con nonchalance aneddoti, convegni e colloqui – tutti, è bene precisarlo, risalenti a prima che fosse nota l’indagine per mafia – che lo legano a tanti personaggi nella trincea dell’antimafia. Quella vera: da Piero Grasso a Claudio Fava, passando per Michele Prestipino, Sergio Lari e Lia Sava, fino a Giovanni Salvi. E qui, più che il tormento per un passato che non c’è più, è una tattica di disperata autodifesa: «Erano tutti con me, ero uno di loro», sembra voler dire ai pm nisseni che però non assecondano il suo gioco degli specchi. Fino a un riflesso di autocoscienza, quando Montante si compiace delle sue gesta nell’«attività antimafia». Ammettendo, quasi in un raptus, che «non mi piace più manco chiamarla così, antimafia… in Sicilia». Ed è la nemesi finale.

Twitter: @MarioBarresi

LA “TALPA” IN ANTIMAFIA

Attaguile: «ho solo esercitato i miei doveri»«Nessuna talpa in antimafia, ma scrupolosa osservanza dei miei obblighi e doveri». Così Angelo Attaguile (Lega), ex membro della commissione Antimafia, sui verbali di Antonello Montante, ieri su “La Sicilia”, che lo tira in ballo per aver ricevuto da Giuseppe Catanzaro un «opuscoletto con domande da porre a Marco Venturi, in audizione. «Ho sempre esercitato le mie funzioni istituzionali di componente dell’Antimafia avendo cura che i temi trattati mi trovassero preparato e puntuale. Nella mia veste e nel rispetto dei miei obblighi ho incontrato sempre chi poteva offrirmi un contributo utile all’accertamento della verità. Nessuno ha mai neppure tentato di condizionare la mia libertà e le persone da me incontrare sono sempre state al di sopra di ogni sospetto. Nello specifico avevo un interesse istituzionale a comprendere quali fossero stati i rapporti, di alcuni auditi, in Sicilia e quale la loro azione da rappresentanti del governo regionale. Era una mia prerogativa ma prima ancora un mio dovere».

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