Matteo Messina Denaro, l’arrivo dei Ros, la resa del boss e la frase al suo autista: «E’ finita»

Di Redazione / 20 Gennaio 2023

Il Gip Fabio Pilato, accogliendo la richiesta del Pm della Dda di Palermo Piero Padova, ha disposto la custodia cautelare in carcere per Giovanni Luppino, l 'agricoltore di olive che ha fatto l’autista al boss Matteo Messina Denaro e che è stato arrestato lunedì insieme al capomafia.

 

 

Luppino, interrogato dal gip nel corso dell’udienza di convalida dell’arresto in flagranza, ha negato di essere stato a conoscenza dell’identità del «passeggero» che aveva accompagnato alla clinica Maddalena, luogo in cui è scattato il blitz. Al giudice ha raccontato di aver conosciuto l’uomo che ha portato in clinica alcuni mesi prima perché gli era stato presentato da un compaesano, Andrea Bonafede, come suo cognato. Da allora non avrebbe mai più visto il boss fino a domenica, quando questi, che lui conosceva con il nome di Francesco, gli aveva chiesto di dargli un passaggio a Palermo dove avrebbe dovuto fare la chemioterapia. Una versione che, secondo la procura, sarebbe completamente inventata. L'agricoltore risponde di favoreggiamento e procurata in osservanza della pena aggravati dal metodo mafioso.

 

 

«E’ finita», sarebbe questa la frase pronunciata dal boss Messina Denaro al suo autista Giovanni Luppino quando ha capito che di lì a poco sarebbe finito in manette. Lo ha detto lo stesso Luppino al gip sostenendo di essersi reso conto della vera identità del boss, presentatogli mesi prima con un altro nome, solo in quel momento. Luppino vedendo i carabinieri avvicinarsi avrebbe detto al capomafia se cercassero lui e Messina Denaro avrebbe risposto: «sì, è finita».

«La versione dei fatti fornita dall’indagato è macroscopicamente inveritiera, non essendo credibile che qualcuno, senza preavviso, si presenti alle cinque del mattino a casa di uno sconosciuto per chiedergli la cortesia di accompagnarlo in ospedale per delle visite programmate, in assenza di una situazione di necessità e urgenza. Ma al di là di ogni considerazione logica, sono le risultanze investigative a fornire il dato decisivo, nella misura in cui il possesso del coltello e dei due cellulari – entrambi tenuti spenti ed in modalità aereo – suggeriscono che Luppino fosse talmente consapevole dell’identità del Messina Denaro da camminare armato e ricorrere ad un contegno di massima sicurezza per evitare possibili tracciamenti telefonici» ha scritto il gip Fabio Pilato, nella ordinanza con cui dispone il carcere per Giovanni Luppino, autista del boss Matteo Messina Denaro.

Nonostante sia incensurato, «deve sottolinearsi che, per quanto allo stato è dato sapere, l'indagato risulta la persona più vicina allo storico capo della mafia trapanese su cui forze di polizia giudiziaria e magistratura siano riusciti ad oggi a mettere le mani».  Luppino è dunque un «collaboratore certamente fidato», scrivono ancora i magistrati, dell’ultimo boss stragista «capace di mantenere fino ad oggi l’anonimato e il suo stesso stato di latitanza a fronte di centinaia di arresti di fiancheggiatori e decine di prossimi congiunti, verosimilmente custode di verità inerenti le pagine più cupe della storia repubblicana». E che Luppino fosse perfettamente a conoscenza di chi fosse colui che si celava dietro l’identità di 'Andrea Bonafedè, i pm lo ribadiscono in un altro passaggio della richiesta. L’autista di un boss, affermano è «necessariamente un soggetto di assoluta fiducia della persona 'accompagnatà» e «inevitabilmente al corrente del delicato compito affidatogli». 

«E come mai – aggiungono – potrebbe essere il contrario», soprattutto nel caso di specie in cui il latitante è un capo mafia latitante da 30 anni. Luppino ha quindi «contribuito, in senso materiale e causale, alla prosecuzione della latitanza: facendogli da autista e accompagnatore personale ha certamente garantito» al boss «possibilità di spostamento in via riservata senza necessità di dover ricorrere a mezzi di locomozione direttamente condotti dallo stesso latitante o mezzi di locomozione pubblici o privati che potessero in qualche modo esporlo alla cattura». 
 Allo stato, concludono i magistrati, «nessun elemento può consentire di ritenere che una figura che è letteralmente riuscita a trascorrere indisturbata circa 30 anni di latitanza, si sia attorniata di figure inconsapevoli dei compiti svolti e dei connessi rischi, ed anzi, l’incredibile durata di questa latitanza milita in senso decisamente opposto, conducendo a ritenere che proprio l’estrema fiducia e il legame saldato con le figure dei suoi stessi fiancheggiatori, abbia in qualche modo contribuito alla procrastinazione nel tempo della sua cattura che, altrimenti, sarebbe potuta effettivamente intervenire anche in tempi più risalenti».

Pubblicato da:
Fabio Russello
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