Loris, la confessione choc di Veronica
Loris, la confessione choc di Veronica «Ha visto un gesto tra me e Andrea»
Ecco tutto quello che la Panarello ha raccontato ai pm
IL PRIMO SFOGO CON LA PSICOLOGA (25 gennaio)
Catania, sezione femminile del carcere di piazza Lanza, 25 gennaio. Veronica Panarello, appena sveglia, ha un malore «dalla descrizione simile a un attacco di panico». E «alla sensazione che la vista della foto dei suoi figli le aveva provocato», scrive la psicologa, prende una decisione. A voce alta: «Voglio raccontare tutta la verità, non lo copro più». Angelida Ullo, ausiliaria dei periti del gup di Ragusa, quella mattina deve somministrare dei test per la perizia psichiatrica a cui è condizionato il rito abbreviato del processo per omicidio premeditato e occultamento di cadavere di Loris Stival. Ma la professionista si trova a raccogliere il primo brandello dell’ultima verità. Agghiacciante.
«Il mostro è nella famiglia, è stato Andrea»
«Dottoressa sono felice che ci sia lei oggi… mi ricordo di lei… lei mi deve aiutare… io ho un peso nel petto e voglio liberarmi… voglio raccontarle la verità». Poi, in un clima da tragedia greca («piange ed è visibilmente provata», annota la psicologa) aggiunge: «Io so chi è il mostro che ha ucciso mio figlio. È vicino a noi, è dentro la famiglia». Infine, la versione-choc: «Non ho ucciso io Loris, è stato mio suocero Andrea». Dice di avere paura. Il figlio più piccolo «quella mattina lo portai a Divertilandia perché lì era più sicuro». «Dottoressa, io a mio figlio l’ho trovato già morto, ero andata a buttare la spazzatura e quando sono rientrata l’ho trovato a terra. Ho provato a rianimarlo, ma ormai… ». Aggiunge anche una confusa descrizione della scena del delitto: Loris «l’ho trovato senza pantaloni e senza mutandine, mio suocero era lì a casa… Mio figlio non è morto con una fascetta, ma con un filo, un cavo». La psicologa, con straordinaria prontezza, si trasforma in investigatrice. E le chiede come il suocero Andrea fosse entrato in casa: «Io avevo detto a Loris – risponde – di non aprire a nessuno, ma lui forse non mi ha ascoltata… lui era troppo buono… non poteva immaginare». Il racconto di Veronica non ha un filo logico, né cronologico. Salta al finale: «Mi ha detto lui tutto quello che dovevo fare e di tenere la bocca chiusa, se no anche l’altro piccolo… ». Poi, nel descrivere l’occultamento del cadavere, usa uno strano plurale: «Me l’hanno messo in macchina… ». E continua: «Mi ha detto Andrea di farmi trovare lì al canalone… lo ha messo lui in macchina (torna il singolare, ndr)… io l’ho solo sistemato e buttato giù». Il viaggio dal luogo del delitto al canalone? «Ero da sola… lui (Andrea Stival, ndr) non lo so com’è arrivato lì, ma era lì, perché me lo ha buttato lui lì».
«Negli ultimi sei mesi lui era assillante… pesante»
A questo punto la psicologa affronta l’argomento più delicato: il rapporto di Veronica con il suocero. Lei risponde che «prima era buono, normale, premuroso», ma poi le cose cambiano. «Era diventato negli ultimi sei mesi assillante… pesante». E lancia l’esca alla sua interlocutrice: «Lui aveva attenzioni strane per Loris, ma io gli ho detto: prendi me, ma a lui non lo lasciare». Quasi a sottintendere quello che poi esplicita: «Da sei mesi avevo frequenti rapporti sessuali con mio suocero quando i bambini sono fuori casa». Per poi precisare: «Non ero consenziente, lo facevo solo per proteggere i miei figli… questo era il patto». Dice di «sentirsi sporca», durante la prima doccia dopo l’accaduto «mi strofinavo così forte la pelle da volerla staccare», perché «mi sentivo sporca dentro e fuori». Ma perché non ha chiesto aiuto, perché non ha detto niente a nessuno? «Lui mi minacciava»: la «stessa fine l’avrebbe fatta» l’altro figlio. E a testimonianza di un “patto” fra lei e Andrea Stival rivela alla psicologa di un vaglia ricevuto in carcere dal suocero: «soldi e lettera», ovvero «un segnale per me che stavo facendo bene a non parlare e che quindi meritavo una ricompensa».
«Loris andò dal cacciatore con suo nonno»
Veronica tira maliziosamente in ballo Orazio Fidone, il cosiddetto “cacciatore”, il pensionato di Santa Croce che trovò il corpo di Loris al canalone poco dopo aver cominciato le ricerche: «Conosceva Loris – racconta alla psicologa – perché mio suocero Andrea l’aveva portato con sé quando andò a casa del cacciatore per fargli dei lavori idraulici». La confidenza continua con toni più acuti: «Mi ha tolto la cosa più preziosa che avevo. Io ho sbagliato, ho mentito, ma ho avuto paura. Devo pagare per quello che è successo, ma non ho ucciso io Loris, merita giustizia». Il pensiero torna al fratellino: «Lui deve stargli lontano, ho cercato di far capire qualcosa a mio marito dicendogli che doveva chiuderlo dentro un cerchio e allontanare suo padre. Ora so che l’ha fatto: sono contenta che stia con Davide e la zia». Ricostruisce, infine, il momento in cui avrebbe avuto la “visione” della verità: nella visita sulla tomba di Loris, lo scorso agosto: «Ho ricordato dello zainetto, tutto mi è apparso più chiaro… ».
Il colloquio con Villardita fino a mezzanotte
Ma perché il silenzio, perché le altre versioni a singhiozzo, perché le mezze bugie e i mozziconi di verità? Ha «avuto bisogno di tempo per decidere cosa fare» e inoltre aveva «sempre paura che mio suocero facesse del male» all’altro figlio. La confessione dura poco più di un’ora: dalle 11,15 alle 12,20. Poi comincia la somministrazione dei test. Veronica e la psicologa Ullo resteranno da sole fino alle 17,45 «con più pause a causa della stanchezza della signora». Ma il messaggio, la madre accusata dell’infanticidio, l’ha già lanciato. E a raccoglierlo, prima ancora che gli inquirenti, è il suo legale, Franco Villardita. Che, autorizzato a un colloquio straordinario in carcere, arriva nel tardo pomeriggio dello stesso 25 gennaio. Il faccia a faccia con Veronica durerà fino a mezzanotte.
L’INTERROGATORIO DEL PM (29 gennaio)
Il 29 gennaio il pm di Ragusa Marco Rota, assieme a polizia e carabinieri, si fionda a Catania. E alle 11, nella sala magistrati del carcere di piazza Lanza, comincia la seconda puntata del Veronica-show. Il magistrato, «preso atto che l’imputata si presenta in condizioni psichiche precarie», dispone la ripresa video dell’interrogatorio. E il contenuto è un documento da manuale di psichiatria. Oppure un’interpretazione da Oscar come migliore attrice. Protagonista, ça va sans dire.
«Sono qui, in ospedale, perché rubai arance»
Veronica sembra confusa. Dà segni di nervosismo, trema. E non riconosce nemmeno le persone che ha davanti. Identifica l’avvocato Villardita come «Franco Di Gerolamo, un amico di mio padre». La giovane assistente del legale, Mariangela Russo, diventa «Mary Angel». A tratti la mamma di Loris canticchia la canzone Ti regalerò una rosa di Simone Cristicchi (il testo parla di malattia mentale e solitudine di un recluso in ospedale psichiatrico). Quando le chiedono dov’è, lei risponde di trovarsi «in ospedale», perché «qualcuno mi accusato di aver raccolto delle arance in un terreno». Oltre che del luogo, la donna dimostra di non avere contezza della dimensione del tempo: «Oggi è il 19 novembre e fra due giorni Davide mi verrà a prendere per festeggiare il nostro anniversario di nozze», sostiene.
«Con Andrea rapporti sessuali consenzienti»
Ma l’atteggiamento della donna cambia quando le fanno il nome di Andrea Stival, che viene indicato «come persona cattiva che frequenta la sua casa per prendere il posto del marito Davide quando questi è fuori per motivi di lavoro», si legge nel verbale d’interrogatorio. E poi viene al (quasi) dunque: «Quando mio marito non c’è e i bambini sono a scuola», il suocero, «che io accudisco», manifesta «attenzioni sessuali nei miei confronti». Il pm e gli investigatori la lasciano parlare in libertà, senza pressare più di tanto. Veronica, dopo qualche minuto di digressioni varie, ammette: «Abbiamo una relazione, ma ho paura che Davide lo sappia». Lei si definisce «consenziente ai rapporti sessuali» e aggiunge di «aver ricevuto pressioni da Andrea» affinché «non rivelasse a nessuno di tale relazione» temendo «il discredito sociale per tutta la famiglia». Ma fino a dove? «Fino al punto di affermare che avrebbe fatto qualcosa, ritengo di male» a Loris e al fratellino.
«Non vi conosco, voi chi siete? Loris sta bene»
Veronica continua a dare segni di instabilità. Pertanto il pm Rota autorizza l’avvocato Villardita a «colloquiare liberamente con la detenuta, mostrando alla stessa maggiore tranquillità». Il magistrato chiede a Veronica di Loris. «È a scuola, è in buona salute», risponde lei. Che, subito dopo, su precisa sollecitazione a riconoscere tutte le persone dentro quella stanza del carcere di piazza Lanza, riserva l’ennesima sorpresa: «Non vi conosco. Non so chi siete. Non vi ho mai visti». E dire che davanti a lei, fra le persone che l’interrogano assieme al pm Rota – oltre al comandante provinciale dei carabinieri di Ragusa, Domenico Spadaro, c’è il capo della Mobile iblea, Nino Ciavola. Lo «sbirro» che Veronica, come si evince da numerose intercettazioni, odia perché pensa che è stato lui a incastrarla. Ma lo rispetta pure: in ogni momento-chiave di questa storia, dal 29 novembre del 2014 a oggi, ha voluto sempre il poliziotto accanto a sé. Tavolta i due sguardi si incrociano. Ma lei guarda fisso nel vuoto.
«Questo cavo Usb non mi piace, è pericoloso»
Ce n’è abbastanza per interrompere l’interrogatorio. Alle 12,57 si chiude il verbale. E si spegne la telecamera che ha ripreso le quasi due ore di “spettacolo”. Ma c’è ancora il tempo per l’ultimo coupe de théâtre. Mentre sta per uscire, Veronica «manifesta agitazione alla vista di un cavetto Usb», lo stesso citato nel precedente colloquio in carcere con la psicologa come nuova arma del delitto che avrebbe usato il suocero per strangolare Loris. Fermi tutti. Manca la scena finale. Si riprende la registrazione. «Signora Panarello, perché è così agitata? », chiedono alla stessa donna che poco prima aveva cantato il brano di Cristicchi sui pazzi e aveva detto che suo figlio sta bene. Lei, senza fare una grinza risponde: «Questo cavetto non mi piace, può essere pericoloso… Ma adesso lasciatemi in pace. Voglio andare via». E così sia. Sono le 13,06 quando la detenuta Panarello torna nella sua cella.
LA SEDUTA DELLA PERIZIA PSICHIATRICA (9 febbraio)
È la scena madre. Ma non quella finale. L’ultima versione di Veronica Panarello gronda di ricordi. Tanti. Forse troppi. Come se fosse una verità sputata dal profondo dell’anima. O magari l’ennesima bugia, ma stavolta studiata nei minimi dettagli. D’altronde il palcoscenico, per una donna accusata d’infanticidio che si autodefinisce «famosa come una star di Hollywood», è ideale. Tutti schierati – davanti a lei, per lei – gli strizzacervelli incaricati della perizia psichiatrica. Ci sono i periti nominati dal gup, Eugenio Aguglia e Roberto Catanesi. E i consulenti di parte: Pietro Pietrini e Giuseppe Sartori per la difesa, Giuseppe Catalfo e Maria Costanzo per il marito come parte civile. C’è anche Silvio Ciappi, nominato dal suocero. Prima che arrivasse il colpo di scena. E al criminologo di Siena l’imputata si rivolge spesso direttamente: «Potrà dire che sono pazza, ma lui quella mattina era con me». L’“accesso”, così lo chiamano, del 9 febbraio non è come gli altri. Dopo quello del giorno precedente, una sorta di avvicinamento, si arriva al dunque. E quel nome – 24 ore prima evocato, ma mai pronunciato quasi per un tacito patto fra le parti – si materializza. Con una valanga di particolari. La Veronica del 29 gennaio, quella che canticchiava Cristicchi e non riconosceva nemmeno il suo avvocato, è diventata un’altra persona. Lucidissima. Come invasata d’una bramosia di parlare. Di raccontare. Buio in sala: che lo spettacolo cominci.
«Probabilmente da oggi riposerà in pace»
È pronta per dirci il nome che ieri non si sentiva di fare? «Sì», risponde. Tremando. «La notte ha portato consiglio. Tenere tutto dentro non serve a niente. Mi sento in colpa perché sono stata zitta». Ribadisce il concetto, ovvero che «pensavo di proteggere» l’altro figlio, «invece sto proteggendo qualcun altro». Poi la notizia: «Quella mattina non ero sola. Sono responsabile io, ma anche qualcun altro. Non avrei potuto scenderlo io: Loris pesava 18 chili, io 48… E quando è addormentato sono più di 18 chili». Poi l’esito di un’auto-perizia psichiatrica: «Matta io non ci sono. Non lo faccio apposta. Se sono stata così è stata paura, paura, paura… ». Il nome, quel nome, è ancora sottinteso. Ma il movente, convitato di pietra di questo processo, è già sul piatto: «Loris aveva capito più di quanto io immaginassi. E, anche se avevo provato a parlargli, qualcun altro voleva parlargli pure». Una consolazione indotta («Probabilmente da oggi Loris riposerà in pace») e un’ammissione: «Ho mentito quando sono andata a fare il sopralluogo a casa». Poi subito alla scena del delitto: «I polsi li ho legati io, ma non l’ho strangolato io. Chi era con me stava discutendo con me. Loris non è morto strangolato con una fascetta, ma da un cavo Usb di un computer. Non pensavo che andasse a finire così… ».
«Loris continuava a dirmi: quando torna papà? »
«Il nome è Andrea». Lo scandisce. Lentamente. Quasi come se fosse un piacere da gustare il più a lungo possibile. E poi è un ping-pong di domande e risposte. Perché volevate parlare con Loris? «Il suo nervosismo degli ultimi giorni è perché voleva dire tutto a papà. Lo aveva capito e lo aveva visto che ci fosse qualcosa. Aveva visto un gesto e forse qualcosa di più. Aveva capito tutto». Lei aveva provato a disinnescare la bomba: «Io ne avevo già parlato con lui. La sua maturità è stata sempre grande, più di otto anni. E quel chiudersi nel silenzio era perché aveva capito». Ma non c’era più nulla da fare: «Quella mattina Loris mi ha detto che l’avrebbe detto a papà. Continuava a dirmi: quando arriva papà? E lì ho avuto ancora più paura». E il suocero era «spaventato di cosa avrebbe mai potuto pensare la gente, suo figlio, sua figlia… ». Dal movente, d’improvviso, il monologo si sposta a casa. «In quel portone non lo vedremo (Andrea, ndr) mai entrare né uscire, perché lui era seduto nel sedile di dietro. Ho posteggiato nel piazzale, ma non avevo le chiavi perché le avevo date a Loris. Andrea è sceso dall’auto ed è salito». Lei si attarda e arriva quando nonno e nipote sono assieme: «C’era la tv accesa e loro stavano già parlando e discutendo. Mio figlio aveva paura, lo vedevo dalla sua faccia. Andrea mi ha detto di prendere qualcosa. Ho preso le fascette». Poi Veronica si auto-esclude dalla scena del delitto. «Mi chiamò Davide al telefono e sono andata in camera da letto a parlare con lui. Non gli ho fatto capire nulla, ma sono stata sbrigativa, perché sentivo alzare il volume nell’altra stanza… ». Torna. Ed è già il finale: «Mio suocero ha preso un cavo. Io sono rimasta pietrificata. Avevo gli occhi spalancati di mio figlio che guardavano me e io non riuscivo a fare niente». Il tentativo, estremo: «Ho provato a prendere le forbici per liberarlo. Ma quando sono tornata per liberarlo, non respirava più». Ammette che «i graffi che aveva al collo erano le mie unghie, cercavo di fargli prendere aria». E perché non ha chiesto aiuto? «Non ho urlato, non sapevo cosa dire… Quando ho preso il telefono per chiamare un’ambulanza, sono stata fermata da mio suocero».
«Assieme verso il canalone, lì l’ha gettato lui»
Loris, secondo questo agghiacciante racconto della madre, a quel punto è morto. «Andrea mi disse: “Non possiamo lasciarlo a casa”», racconta la nuora. Il bimbo è ancora vestito («aveva pure il giubbotto e il grembiule, quando era salito non s’è tolto niente»), Veronica ricorda che «gli ho tagliato le mutandine di lato perché s’era fatto la pipì addosso». E poi, da profonda conoscitrice delle carte processuali, specifica: «Ecco perché è stato trovato con i pantaloni non abbottonati». A questo punto il film della Panarello continua con l’occultamento del cadavere. Lei scende in garage, «quando il signor Emmolo, quello del primo piano, era appena uscito». Sposta la sua “Polo”. «Poi è arrivato Andrea con in braccio Loris. Ho aperto lo sportello lato passeggero ed è lì che è stato poggiato». Aggiunge un particolare: «Gli ho messo un plaid blu di Topolino di sopra». Andrea «si è messo nel sedile dietro di me». Poi un altro dettaglio: «Ho chiuso forte il garage, c’era la ragazza del lavasecco davanti e io ho messo un giubbotto sopra mio suocero». Ma perché lo copre? «Avevo paura che lo vedessero». Comincia il viaggio. «Non sapevo dove andare, mi ha detto: “Vai verso Punta Secca”». Racconta il percorso, fino al canalone. Arrivati. «Io ho tolto il plaid di Topolino, lui l’ha preso in braccio. Ed era appoggiato al muretto». Ma, così come per lo strangolamento, Veronica si tira fuori anche dall’altra scena decisiva: «Ero ferma, ma non ho visto come è caduto, non ho visto niente». Si riparte. «Mi sono seduta nel sedile accanto, guidava lui. Ha fatto un giro largo, si è fermato in una strada. Mi ha detto che aveva dimenticato il telefono e doveva tornare a casa. Mi ha lasciato lì». Con una frase («Stai zitta e vai a casa ora pensa all’altro figlio») che Veronica racconta di aver avvertito «come una minaccia».
«Zainetto e mutandine, ecco dove li ho buttati»
Veronica risale a casa. E sostiene di aver “bonificato” la scena del delitto. Buttando le prove una in un posto diverso dall’altro: il famoso zainetto di Loris «in un campo», «poi anche le fascette» (ma dove?), gli slip e la spazzatura «dentro un bidoncino con un sacco nero al castello». Non fa più cenno a un altro elemento: il cavetto Usb. A Donnafugata partecipa al corso di cucina. «Non capivo niente, le persone erano un rimbombo». Alle 12,15 – racconta – «mi sono alzata di scatto: devo andare a prendere i miei figli a scuola! ». La nebbia avvolge la sua mente: «Speravo di vivere il giorno precedente e di trovare Loris vivo». Le ricerche, la disperazione, il ritrovamento del cadavere, i primi sospetti su di lei. «Una volta Andrea disse: “Forse sei stata tu”. Ero furiosa, gli ho tirato una bottiglia addosso e gli ho detto: vattene e non farti vedere più».
«Mi attraevano le sue attenzioni. Davide invece… »
Ma in molte domande Veronica è sfuggente. Mai più parlato col suocero prima dell’arresto? «Non capivo niente, dormivo sempre». Perché ha fatto «gestire ad Andrea» e non ha chiamato il marito? «Perché la situazione era tranquilla»; ma le fascette risulterebbero messe ai polsi la notte prima. Quando è sceso dall’auto dopo il canalone? «Non ci penso, avevo fretta di andare a casa». Perché ha gettato gli oggetti in posti diversi? «Perché mi accorgevo di una cosa in più man mano che camminavo». In una cosa sola la donna è precisa. Perché era attratta da Andrea? «Per l’attenzione che mi dava, per come mi faceva sentire quando Davide non c’era». Ma Davide non era affettuoso? «A volte sì, a volte no. Lui non è molto “facile” nel dire le cose. Riesce a farle capire».
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