Le classifiche di qualità degli atenei
Le classifiche di qualità degli atenei influenzano gli utenti e la politica
Ma investire al Sud conviene. Ecco perché
Le classifiche degli Atenei italiani, stilate di recente da diversi osservatori, hanno ricevuto grande attenzione dai mezzi di informazione, e hanno suscitato un vasto dibattito, con interventi di molti commentatori ed “addetti ai lavori”. Quanto queste classifiche siano davvero affidabili, ed efficaci nell’indirizzare le scelte dei ragazzi e delle famiglie sugli studi universitari sono questioni aperte. Ciò che è fuori dubbio è che queste classifiche sono molto potenti nell’influenzare il dibattito e le scelte di politica universitaria. Non voglio ripetere quanto hanno scritto su La Sicilia Lillo Miceli, Pinella Leocata e lo stesso Rettore dell’Università di Catania, Giacomo Pignataro: gli aspetti positivi e di stimolo, così come quelli fuorvianti, distorsivi, o addirittura grotteschi, sono stati già spiegati con chiarezza. Riccardo Realfonzo, su il Sole 24 Ore, in un articolo intitolato “Il contesto conta” ha addirittura notato che se si considerasse il tasso di occupabilità dei laureati rispetto ai coetanei, la classifica vedrebbe Catania e Napoli ai primi due posti. Io potrei aggiungere che i laureati dell’Ateneo di Catania, in termini di retribuzione ad un anno dalla laurea, rispetto ai conterranei non laureati, hanno un premio maggiore rispetto al dato medio italiano. Insomma, è noto che queste classifiche sono “poco robuste” alla scelta degli indicatori e ai criteri di normalizzazione dei dati; ciò spiega anche perché gli ordinamenti sono spesso assai differenti da classifica a classifica. Il punto da sottolineare è che la scelta di uno, piuttosto che un altro, degli indicatori, e la definizione dei pesi, riflette (e non può che essere così) un a-priori ideologico. Risponde, cioè, alla visione di quali debbano essere i fattori più rilevanti nella missione multi-dimensionale delle università. Ad esempio, nella valutazione della didattica, considerare gli stage (e non gli insegnamenti offerti in lingua straniera – per dirne una) implicitamente rispecchia un ordinamento di valori, ossia un’ideologia. Le Università erogano una molteplicità di servizi, di diversa natura. Accanto alla didattica, di più stretta importanza per gli studenti, vengono svolte attività di ricerca, teorica ed applicata, che rientrano nella missione “storica” degli Atenei (e sulla quale è principalmente basata la valutazione dei docenti). Negli anni recenti, inoltre, viene richiesto agli Atenei di essere attivi nel trasferimento di tecnologie, nella promozione delle imprese, nello sviluppo dei territori in cui insistono. E’ difficile aggregare tutti questi aspetti in un unico indice di qualità, e il peso assegnato a ognuna di queste missioni cambia il quadro dei valori. Molti degli indicatori considerati da queste classifiche sono al di fuori del controllo delle Università: basti pensare alla percentuale di occupati ad un anno dalla laurea!, ma anche al numero di borse di studio erogate (che sono decise dalle Regioni e non dagli Atenei), che hanno poco o nulla a che fare con la qualità della didattica. Duole osservare, ad esempio, che svariate regioni, anche del Sud, hanno investito nel sostegno alle loro Università, negli ultimi anni, somme ben più rilevanti di quanto abbia fatto la Sicilia (sto pensando, ad esempio, alla Puglia e alla Sardegna). Alla politica va chiesto di non prendere come “fotografie neutrali” queste classifiche e di avere il coraggio di identificare gli obiettivi da perseguire, prima di disegnare le misure per raggiungerli. Gli ultimi anni di crisi economica hanno fatto ridurre in misura preoccupante la spesa delle famiglia in cultura e istruzione. Si sta ampliando la fascia di chi pensa che investire in studi universitari non convenga. Questo è profondamente sbagliato. Chi si laurea ha comunque una probabilità di trovare occupazione più elevata di chi non lo fa, e la remunerazione attesa dei laureati è comunque superiore rispetto ai non laureati. Le famiglie devono avere questo ben chiaro. Sul dove iscriversi all’Università, tanti fattori sono rilevanti. Ma uno Stato degno di questo nome deve garantire uguali opportunità a tutti. I tanti giovani siciliani che scelgono gli atenei del centro-nord sono infatti parte di un fenomeno che colpisce l’intero Sud. La percentuale degli immatricolati nelle università del Sud sul totale nazionale è scesa in dieci anni di circa 5 punti. La riduzione delle risorse dell’intero sistema universitario (meno 14% di finanziamento ordinario in cinque anni) grava particolarmente sugli atenei meridionali (meno 19% contro il meno 7% nel Centro-Nord). La politica deve interrogarsi seriamente sui meccanismi premiali e di distribuzione delle risorse. Un “costo standard” per studente che non valuti l’allungamento del percorso universitario come effetto collaterale di un mercato del lavoro bloccato, o premialità legate alla capacità degli atenei di attrarre fondi privati, sono indicatori che chiaramente penalizzano le università collocate nelle aree più svantaggiate. Insomma, stiamo attenti agli effetti redistributivi di queste classifiche della qualità, e anche al pericolo che la politica universitaria porti ad allargare, anziché restringere, il gap tra le regioni del nostro Paese.