Droga
L’arresto dello chef-pusher a Palermo, Miccichè cliente in auto blu: «Non sono indagato e non farò il test antidroga»
Nell'inchiesta della Procura di Palermo coinvolti anche i due presunti fornitori, Gioacchino e Salvatore Salomone (ai domiciliari) e tre dipendenti di Villa Zito che hanno l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria
L’inchiesta è di mesi fa e nasce da un’indagine di mafia ancora top secret. E’ allora che la squadra mobile palermitana comincia a tenere d’occhio Mario Di Ferro, 57 anni, una vita nella ristorazione e un nome noto nella Palermo che conta e che frequenta il suo locale: Villa Zito. Videocamere nascoste e cimici raccontano alla procura di Palermo l’altra faccia dello chef che, secondo l’accusa, all’attività legale aggiungeva quella illecita dello spaccio di droga. Tra i clienti, alcuni sono ancora da identificare, ci sarebbero l’ex presidente dell’Ars ed ex senatore Gianfranco Miccichè e Giancarlo Migliorisi, ex componente dello staff dell’attuale presidente dell’Ars Gaetano Galvagno. Nessuno di loro è indagato. Migliorisi, sorpreso ad aprile ad acquistare droga da Di Ferro ammise tutto e lasciò l’incarico.
Oggi il ristoratore è stato arrestato per la seconda volta, e posto ai domiciliari, insieme ai due presunti fornitori, Gioacchino e Salvatore Salamone, condotti in carcere, già condannati in un processo sul riciclaggio dei soldi sporchi dei clan. Per tre dipendenti di Villa Zito, che sarebbero stati utilizzati per lo smercio, invece, il gip ha disposto l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.«Prima di potere dire qualcosa devo capire cosa c’è nell’inchiesta in cui non sono indagato, ma posso dire che sono dispiaciuto per Mario Di Ferro: è un caro amico che conosco e frequento da moltissimi anni. Andavo alla sue feste che erano sempre molto divertenti, frequentate da tantissima gente e dove non ho mai visto della droga», ha commentato Miccichè con l’ANSA, aggiungendo in un secondo momento: «Ho sempre ammesso di aver fatto uso di cocaina in passato. Ma non l’ho mai fatto da presidente dell’Ars. A 70 anni, se sniffassi, sarei già nella tomba. Quando sono stato intercettato, ero senatore. Non sono accusato di nulla. Il mio nome non si poteva e doveva scrivere. Dicono che andavo a Villa Zito per comprare droga ma non c’entro niente con questa vicenda. È stato uno sputtanamento che sta facendo soffrire mia moglie e le mie figlie». Miccichè aggiunge ancora che non si sottoporrà sottoporsi a un test antidroga. «Non devo dimostrare niente a nessuno – sostiene Miccichè – se anche domani mi facessi un tiro di cocaina, non è reato e sarebbe solo un problema mio. Queste iniziative sono solo demagogia. Sono una persona onesta, ho la coscienza a posto».
Nella misura cautelare disposta dal gip si parla di una trentina di cessioni di cocaina da Di Ferro al politico che, in alcuni casi, sarebbe andato a ritirare la droga con l’auto dell’Ars con tanto di lampeggiante acceso. «Escludo in maniera categorica che io mi muova in macchina con lampeggiante acceso – ha detto l’ex senatore – considero molto più importante nella mia vita di essere stato onesto, non avere mai fatto male a nessuno, non avere mai rubato un centesimo. Poi ognuno di noi qualche errore lo ha fatto. L’importante è essere a posto con la propria coscienza, e io lo sono».
Sulla pubblicazione delle intercettazioni e sul nome accostato all’inchiesta l’ex presidente dell’Ars si interroga: “Mi chiedo: si potevano fare, visto che a fine 2022 ero senatore? Si possono pubblicare oggi? È una cosa da Paese civile? Vorrei non dirlo io ma leggerlo su un grande giornale. Comunque, perché esce il mio nome?». E sulle sue frequentazioni nel ristorante a Villa Zito spiega che «tutti sanno a Palermo che io mangio ogni giorno» lì. «Forse non tutti sanno che – aggiunge – c’è sempre un tavolo per me. E quando lascio Palermo avverto. Per evitare che gli resti un tavolo vuoto. Accadde quel novembre. Devo aver detto cinque giorni. Ma riferiti a una partenza per Milano, a un soggiorno a Gardone Riviera, Villa Paradiso, camera 142. Ecco la fattura dell’albergo, per fortuna conservata, trovata dalla mia segretaria. E sulle carte scrivono che non partivo mai».
Di Ferro è uno chef famoso a Palermo, dove ha anche ha cucina per due Papi, Francesco e Benedetto XVI, per l’allora segretario generale delle Nazioni unite Kofi Annan e per Hillary Clinton. Lui e Miccichè, sostiene la Procura, avrebbero usato un linguaggio in codice per parlare della vendita dello stupefacente: per indicare le dosi avrebbero fatto riferimento, ad esempio, al numero dei giorni in cui il politico si sarebbe dovuto recare fuori sede. Conversazioni che hanno insospettito gli inquirenti. «Ma quanti giorni sono?» chiedeva Di Ferro nell’ambito di un discorso totalmente diverso e il politico rispondeva: «va beh uno, che c… ne so poi io». In altri casi, invece, il politico faceva riferimento al cibo. «Che mi puoi portare da mangiare”? chiedeva. E Di Ferro: «ci penso io». Subito dopo aver parlato con l’esponente di Fi (dell’acquisito dello stupefacente sostengono gli investigatori) Di Ferro chiamava i suoi fornitori, che nelle sue conversazioni con l’ex senatore indicava come «rappresentanti» e ordinava loro la droga, che puntualmente gli veniva recapitata. L’accusa ricostruisce anche quelle che ritiene criptiche indicazioni relative alle dosi presenti nelle conversazioni tra Di Ferro e l’ex senatore e ciò che poi l’indagato riferiva al suo fornitore.
Molte le foto che immortalano Gioacchino Salamone mentre arrivava al ristorante di Di Ferro dall’ingresso secondario o mentre passava una busta, attraverso una grata del cancello, al ristoratore. Alla consegna, secondo un modus operandi frequente, seguiva l’arrivo di Miccichè immortalato dal sistema di videosorveglianza mentre si presentava al locale, a volte entrando anche lui dall’ingresso secondario. Per l’accusa l’ex senatore sarebbe andato a ritirare la cocaina.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA