CATANIA – Ci son voluti sette anni per arrivare alla sentenza in primo grado di giudizio, emessa lo scorso 12 aprile dalla II Sezione penale del Tribunale di Catania, che per la morte di una giovane mamma in procinto di partorire per la terza volta ha condannato due medici a 4 mesi di reclusione (pena sospesa), non sono state ancora depositate le motivazioni.
I medici, che all’epoca dei fatti erano in servizio all’ospedale Garibaldi Nesima, «sono Michele La Greca e Ilenia Fonti, lo scriva, voglio che si sappia – è la richiesta di Giovanna Cavallaro, sorella di Josefa, la 34enne uscita solo morta dalla sala parto – sono sette anni che non viviamo più. Abbiamo avuto giustizia? Nessuno riporterà indietro mia sorella e la mia nipotina».
Per il processo per la morte della bambina, nata di 2,100 kg e chiamata Palomba Aurora Josefa, avvenuto 14 giorni dopo il decesso della mamma, è in corso separato giudizio in sede civile nei confronti dell’Azienda Sanitaria. «Ma noi riviviamo quel giorno di sette anni fa come fosse un incubo – racconta Giovanna – non ci ha chiamato nessuno dall’ospedale, mia sorella aveva lasciato il cellulare alla compagna di stanza, solo così abbiamo saputo. Josefa era alla 36esima settimana, l’hanno tenuta ricoverata dieci giorni in una attesa che ancora oggi non comprendiamo. Lei aveva già fatto due parti cesarei, anche questo si prospettava tale. Aveva contrazioni, le hanno fatto delle flebo per calmarle, al nono giorno le è venuta la flebite. E il giorno che avrebbe dovuto essere dimessa invece è morta».
«Ci siamo precipitati in ospedale – racconta ancora Giovanna – era un giovedì, mia sorella era in sala parto dal primo pomeriggio, è stata dentro dalle 14.30 alle 19.30 e nessuno ci ha dato informazioni vere sulla salute sua e della bambina. Le notizie ci venivano date a spizzichi e bocconi, da “troppa aderenza” a “emorragia troppo forte”, a “abbiamo strappato la placenta con le mani”… detto dal dottore La Greca a me, in faccia! Io che sono ignorante, perché non ho studiato Medicina, avendo avuto cinque gravidanze ho capito che qualcosa non andava. “So che la placenta si deve togliere intera”, gli ho risposto, “perché non le toglieva l’utero?”. “Se le tolgo l’utero sua sorella mi denuncia!”, mi ha detto a voce alta. “Ma se lo fa per salvarla mia sorella la ringrazia, non la può denunciare”, ho contestato. “Preghi, preghi fino a domenica. Dopo ne parliamo”, mi son sentita rispondere. Io avrei dovuto pregare, ma mia sorella era già morta, avrei saputo dopo. Con quale coraggio mi ha detto queste cose? Solo cinque anni prima mia sorella aveva partorito con cesareo, sempre a Nesima, e non aveva avuto problemi. Anche stavolta ci siamo rivolti a Catania, invece che a Siracusa dove mia sorella viveva, perché qui ci sono le incubatrici».
«È tutto scritto nelle motivazioni della sentenza emessa in sede civile – prosegue – nei confronti dell’Azienda Sanitaria per la morte di mia sorella, in più parti si dice che mia sorella non doveva morire. Si doveva fare il cesareo e togliere l’utero, e basta. Non voglio che ci siano altri bimbi che piangono le mamme, perché mia sorella ha lasciato due figli che ora stanno con i nonni paterni. Il bambino spesso chiede “Perché Gesù si è portato la mia mamma?”, cosa rispondergli… «No amore, Gesù non la voleva. Purtroppo si è trovata nel momento sbagliato con le persone sbagliate, questo è successo». Sono state distrutte tre famiglie, io prego il Signore che chi ha causato tutto questo soffra come noi. Non è stato fatto di tutto per salvarla, ed è tutto scritto. Voglio che si sappia che loro sono stati condannati, anche se in primo grado, lo sono stati perché sono colpevoli. Sono distrutta, i medici dovrebbero dare la vita per gli altri, loro non lo hanno fatto. E non li posso perdonare».