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IL racconto

«Io, scampata al mio ex che voleva uccidermi», la storia di Lidia

L'hostess che lavorava a Catania stava per essere strangolata e pugnalata a morte. «Lo Stato non tutela le vittime»

Di Rossana Lo Castro |

Per anni non ha dormito. «Appena chiudevo gli occhi mi ritrovavo la sua immagine davanti mentre tentava di ammazzarmi. In strada, a ogni auto che mi sorpassava, pensavo fosse lui”. Giorni vissuti nel terrore dopo essere scampata alla morte. Per mano del suo compagno. Dell’uomo che diceva di amarla. Lidia Vivoli è sopravvissuta a un tentativo di femminicidio nel giugno del 2012 e ai sensi di colpa. «All’inizio non riuscivo a parlare di quello che mi era successo. Mi sono fatta aiutare», dice all’Adnkronos l’ex assistente di volo palermitana, oggi mamma di due splendidi gemelli. Vittima di una relazione tossica Lidia, che, con un matrimonio fallito alle spalle, si era fidata di lui, l’uomo che una notte di 11 anni fa ha cercato di ammazzarla. Prima a colpi di forbice, poi tentando di strangolarla. “Dopo oltre un anno dalla fine del mio matrimonio vissuta come un lutto – ricorda – accettai la corte di quell’uomo brillante e sempre sorridente. Mi sono detta provaci. Mi sono data un’altra possibilità, perché il mio sogno è sempre stato avere una bella famiglia».

I primi cinque mesi volarono via tra sorprese e attenzioni. «Sembrava il principe azzurro, mi riempiva di complimenti. Aveva mille premure, le gite romantiche in barca, la cena pronta quando arrivavo a casa dopo il lavoro, gli incontri in aeroporto alle 4 del mattino solo per prendere un caffè insieme prima del mio imbarco. Era meraviglioso».

L’idillio, però, durò poco. Quando la compagnia aerea per cui lavorava trasferì Lidia a Catania lui decise di seguirla. «Vengo con te. Essendo un barman troverò lavoro più facilmente là, mi disse». Con la convivenza iniziarono i problemi. «Mi accorsi che c’era qualcosa che non andava. Iniziò a controllarmi. Una volta mi chiese di dargli il telefono e, davanti al mio rifiuto, mi sferrò uno schiaffo talmente forte da farmi sbattere la testa al muro. Andai in ospedale per farmi refertare e lo allontanai, ma iniziò a tempestarmi di telefonate». Le chiese scusa, promettendole che non sarebbe più successo e Lidia lo perdonò. «Ero soggiogata, una sorta di dipendenza affettiva difficile da spiegare».

La relazione andò avanti per qualche altro mese. A distanza. «Non tornò a vivere con me a Catania”. Fino al 24 giugno 2012. «Mi propose di fare una gita al Santuario di Tindari, a Messina, e io accettai. Passammo una giornata bellissima. Sulla strada del rientro dopo aver lasciato a casa mia sorella che era venuta con noi, mi chiese di poter restare da me. Cenammo e guardammo un film, poi mi addormentai. All’1.45 mi disse che doveva andare in bagno. Io rimasi a letto, ricordo ancora il suono dei suoi passi. Andò in cucina, prese una bistecchiera in ghisa e mi colpì con violenza alla nuca».

Lidia pensò di essere vittima di un rapinatore. «Mi arrivò una scarica di colpi forti e talmente veloci che non riuscii ad alzarmi subito dal letto. Quando il manico della stoviglia si ruppe e riuscii a sollevarmi, lo vidi davanti a me. Ero scioccata. E’ stato devastante».

Lidia ricorda la violenza, ripetuta e feroce. «Prese delle forbici e me le piantò sulla schiena e poi ancora sulla coscia, sul tronco, sulla nuca”. Schiacciata tra il muro e il letto tentò di difendersi. «Mi avvolse il filo abat-jour attorno al collo e tentò di strangolarmi».

L’aggressione andò avanti a lungo. Sempre più brutale. «Riuscii a ferirlo e mi trascinai fino al letto. Sentivo solo il battito del mio cuore. Pensai che sarei morta, mi misi a pregare. Gli dissi che non avevo intenzione di denunciarlo e lui mi rispose “Adesso mi vesto, ma se ti muovi di un millimetro ti uccido”. Quando andò via, chiamai il 118 e mia madre. Lui lo trovarono a casa sua, disse che si era difeso da una mia aggressione. Peccato, però, che avesse solo qualche graffio mentre io fossi in fin di vita in ospedale». Il calvario di Lidia continuò anche dopo. «Dopo cinque mesi di carcere, andò ai domiciliari e continuò a perseguitarmi. Poi arrivarono le minacce ai miei genitori per farmi cambiare versione dei fatti. Vivevo nel terrore».

Non andò meglio in tribunale quando iniziò il processo. «Sono stata umiliata, ho subito domande vergognose. Viviamo in una società patriarcale in cui il pregiudizio continua a colpevolizzare le donne vittime di violenza. La parità tra i sessi non c’è, l’uomo ha una libertà che alla donna non è concessa».

Quando ha sentito la storia di Marisa Leo, la 39enne uccisa nel Trapanese dall’ex compagno che poi si è tolto la vita, è ripiombata indietro negli anni. «Succede ogni volta, è una ferita che non si rimargina. Lo Stato mi ha abbandonato. Le donne uccise quasi sempre hanno denunciato i loro carnefici, ma per tutelarci non ci sono fondi. O forse quello che manca davvero è la volontà. Mi chiedo perché i nostri carnefici possano godere di benefici e permessi premio, possano sfruttare mille cavilli e le vittime, invece, debbano essere condotte in una casa protetta, sradicate dai loro affetti, perdere la loro libertà. Ed essere continuamente giudicate, per il loro aspetto, per le loro scelte di vita, per un rossetto rosso o un vestito scollato».

Oggi Lidia la sua storia la racconta. Alle altre donne perché «abbiano il coraggio di denunciare». Nelle scuole per «far capire che amore è libertà» e per dire alle ragazze che «nessun uomo ha il diritto di imporre loro cosa fare e come vestire e che la violenza non ha scusanti. Mai e di nessun tipo» e per spiegare ai ragazzi che «le donne non sono oggetti di loro proprietà». «Lo faccio anche per i miei figli, sanno tutto e voglio che siano orgogliosi di me. A loro insegno a essere sempre liberi e a non farsi condizionare. Ad avere sempre il coraggio delle loro scelte».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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