In aula le “pressioni” del faccendiere Arata sui burocrati regionali

Di Redazione / 25 Settembre 2020

PALERMO – Le pressioni del faccendiere Paolo Arata sui burocrati regionali siciliani per ottenere le autorizzazioni per la realizzazione in Sicilia di impianti legati alle energie alternative sono state al centro della deposizione del capo della Protezione Civile, Salvatore Cocina, che ha testimoniato al processo che vede imputati di corruzione e intestazione fittizia di beni tra gli altri lo stesso Arata, il figlio Francesco Paolo, il dirigente regionale Alberto Tinnirello e l’imprenditore milanese Antonello Barbieri.

Il processo, celebrato in ordinario davanti alla quarta sezione del tribunale di Palermo, nasce da un’inchiesta della Dda del capoluogo che portò in carcere il re dell’eolico Vito Nicastri, ritenuto tra i finanziatori della latitanza del boss Messina Denaro, che ha patteggiato una condanna a due anni e 10 mesi sempre per corruzione e intestazione fittizia di beni, il figlio Manlio, che rispondeva degli stessi reati, e che ha patteggiato a due anni, gli Arata e alcuni funzionari regionali. Cocina, per anni capo capo del Dipartimento Acqua e Rifiuti alla Regione, ha raccontato che gli era stato sottoposto, per l’autorizzazione, il progetto di costruzione di un impianto di biometano che avrebbero voluto realizzare Arata e Nicastri in Sicilia.

«Era un’opera che non mi convinceva – ha spiegato – perché dietro all’impianto di bio-metano a mio avviso si nascondeva il tentativo di realizzare un termovalorizzatore: una parte dei rifiuti infatti sarebbero stati bruciati. Perciò mi opposi».

Ma Arata non si sarebbe arreso davanti al no di Cocina e avrebbe fatto pressioni facendo riferimenti ai suoi rapporti politici – era un consulente della Lega – e al ruolo di capo dell’Autorità di regolazione per energia, reti e ambienti (Arera) che stava per ricoprire (la nomina poi non ci fu).

A interessarsi dell’affare però sarebbero stati anche il presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè e l’assessore regionale al ramo Alberto Pierobon che, secondo la testimonianza di Cocina, avrebbero più volte sollecitato il funzionario a definire il procedimento.

L’indagine che ha dato via al processo, coordinata dal procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido e dal pm Gianluca De Leo, svelò un giro di mazzette alla Regione siciliana. Arata e Nicastri, che erano soci di fatto, avrebbero pagato tangenti a diversi funzionari per avere agevolazioni nei loro affari nel campo delle energie rinnovabili.

Una tranche dell’inchiesta, che ipotizza il pagamento di una tangente di 30mila euro all’ex sottosegretario leghista alle Infrastrutture Armando Siri per l’approvazione di un emendamento che avrebbe dovuto far ottenere finanziamenti ai due soci, fu trasmessa a Roma per competenza. Siri ricevette un avviso di garanzia e lasciò l’incarico.

Secondo gli investigatori, il dirigente regionale Giacomo Causarano, che ha scelto il rito abbreviato ed è imputato davanti al gup, sarebbe stato il trait d’union tra Nicastri e Tinnirello, il funzionario che firmava le autorizzazioni necessarie all’imprenditore per la realizzazione di due impianti di biometano. Il piano era ottenere l’Autorizzazione Unica da parte della Regione. La mazzetta pattuita sarebbe stata di 500mila euro. I primi centomila sarebbero già stati consegnati, il resto doveva essere versato alla firma del permesso.

Gli impianti dovevano essere costruiti a Francoforte e Calatafimi. In realtà Nicastri aveva intenzione di vendere il progetto, con tutte le autorizzazioni ottenute, a grosse imprese: affare che avrebbe portato al “re dell’eolico” tra 10 e 15 milioni.
Barbieri, invece, sarebbe stato socio di Nicastri fino al 2015, poi avrebbe ceduto le sue quote ad Arata per 300mila euro.

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