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Cronaca

«Il reddito di cittadinanza “n’attocca” se mio marito esce dal carcere?»

Di Mario Barresi |

CATANIA – Così, visto da dentro, sembra un ufficio del Canton Ticino. O quasi. E anche da fuori. Se non fosse per quelle saracinesche sgangherate, abbassate attorno all’unica entrata.

Catania, ieri mattina. Centro per l’impiego di via Giannotta. Non c’è ressa di cittadinanza a caccia del reddito.

Il retrogusto di fake news si scioglie all’ingresso. «Ma lei ce l’ha l’appuntamento?», ci chiede un tipo mentre smanetta con un iPhone di ultima generazione. No. E quando entriamo in sala, accomodandoci su una delle tante sedie libere, ci guardano subito con sospetto. Nessun assalto dei lanzichenecchi del Sacro Pentastellato Impero. Pochi, ma quasi tutti interessati. «Ma a noi ci “attocca” il reddito di cittadinanza se mio marito, fra un poco, esce dal carcere?». La domanda di Teresa, bambina con le rughe che, nascondendo con pudicizia quasi vedovile la sua bellezza, trascina la piccola Rebecca fino al cuore del problema. La risposta è vaga quanto basta: aspettiamo il decreto, le faremo sapere. Lei ci spera, perché, confessa, «così lui si sta tranquillo a casa, si pigghia ‘stu reddito e per qualche mese non si fa arrestare».

Prova a prendermi. Come il titolo di quel film. Tutti lo vogliono, ma in pochi sanno come si farà. Ma qui trovano allo sportello persone disponibili. Umane. «Miii! Ora l’ho capito, come funziona ‘stu redditu. Il “pobblema” è comu ci l’ha spiegari a mio genero…», sbotta una signora sulla sessantina con l’amica che indossa un cappotto in stile “non vedevo l’ora di fare il cambio di stagione”. Chi invece indossa una t-shirt, con l’effige di uno storico gruppo haevy metal, è Rocco. Grillino in servizio permanente effettivo. «Lei mi chiede del reddito di cittadinanza perché è un giornalista servo del potere e vuole criticare il governo del cambiamento che mette al centro la dignità popolo». Non è una domanda, ma una sentenza. Senz’appello: lo smilzo giovanotto con la barbetta si sfila senza dirci perché si trovasse lì.

La mattinata procede con lenta regolarità. Ci sono i numeri elimina-code, ma non ci sono code. Gli operatori sono pochi, ma rapidi. Ma dove sono le migliaia di «analfabeti» o di «imboscati» evocati da alcune narrazioni di questi giorni? Senza preavviso, andiamo a chiederlo a Salvatrice Rizzo, direttrice del Centro per l’impiego di Catania. La quale, dopo qualche diffidenza per la “razza” dei giornalisti, si apre. E comincia a sparare numeri a raffica: 3.500 forestali in graduatoria solo nel distretto catanese; 115 corsi di formazione con 2.540 allievi da controllare; 1.200 tirocini pubblici e un migliaio avviati da enti terzi; i controlli su migliaia di destinatari della “carta Rei” (il Reddito d’inserimento, roba jurassico-renziana, ma tutt’ora in vigore con un certo successo) da controllare per il Comune; 14.248 disabili iscritti al collocamento obbligatorio; 1.400 in attesa dei cantieri di lavoro sugli edifici di culto; e poi i “naspizzati”, delizioso neologismo-horror del burocratese per definire i 4.841 destinatari – a Catania città – dell’indennità di disoccupazione dovuta al malefico Jobs Act, i quali percepiscono «fino a un massimo di mille euro, in base al lavoro dapprima svolto, con la “condizionalità” di dover dimostrare al Centro per l’impiego di aver cercato un lavoro senza trovarlo». In pratica quello che succederà con il reddito di cittadinanza; furbetto più, furbetto meno.

«Con tutto quello che già facciamo vuole che sia spaventata dallo tsunami della nuova misura?», si domanda la direttrice Rizzo. Che, dopo averci spiegato, numeri alla mano, cosa fanno a Catania gli 89 colleghi dei 1.700 impiegati siciliani dei Centri per l’impiego (il 23% del totale nazionale), «visto che da Reggio Calabria in giù è un ente con competenze e carichi di lavoro ben diversi», ammette con onestà intellettuale: «Così come siamo, non siamo pronti a gestire il reddito di cittadinanza». E non ne fa una questione di numeri: «Non è che se ho mille dipendenti anziché cento, riesco a creare un milione di posti di lavoro…». Le opportunità non le dà il personale, «anche se ben venga il potenziamento annunciato dal governo». L’incrocio fra domanda e offerta di lavoro, unico antidoto contro i truffatori di ogni tipo di sussidio, lo favoriscono la tecnologia (magari «facendo parlare banche dati che oggi non si parlano»), la riqualificazione del personale e l’aggiunta di nuove figure. «Sono pronta a ospitare economisti d’impresa, sociologi, psicologi. Riusciremo a fare quello che oggi facciamo in modo casereccio, soltanto con il cuore. Se io dicessi ai miei colleghi che da oggi si svolgono soltanto le mansioni ufficiali, questo ufficio si bloccherebbe». Il riferimento, magari, è all’avvocatessa livello “A” che anziché fare l’usciere si occupa dei contenziosi, o all’ex Lsu laureato che gestisce da manager i rapporti con le aziende. «Ecco, dobbiamo fideizzare le aziende. È questo il punto-chiave».

Sfatato, grazie a questa donna competente e appassionata, il tabù del fancazzismo nei Centri per l’impiego (ma una rondine non fa primavera), salutiamo i “naspizzati” – che al secondo piano aspettano di certificare che a Catania non trovano lavoro – e torniamo in via Giannotta.

L’orario di ricevimento al pubblico sta per terminare. L’ultimo a uscire è Guido. Disoccupato griffatissimo dalla testa (gli occhiali da sole) ai piedi (le sneaker da 300 euro). «Che vuole che le dica? Meno male che c’è Di Maio… E anche Salvini. Perché uno ci dà il reddito e l’altro ci libera da questi niurazzi che ci tolgono il lavoro a noi italiani». E il reddito di cittadinanza? «Se la ricorda quella canzone? “Io non ti voglio, ti prentendooo”». Sì, era il buon vecchio Raf. Il nostro interlocutore si congeda bruscamente quando arriva una Mercedes “Cla Coupé” bianca. È un suo amico. «’Mbare… ancora nenti. Forse prima delle votazioni…».

Twitter: @MarioBarresi

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