«Signora deve indossare la mascherina anche in sala parto». La voce dei medici prima di iniziare il travaglio per dare alla luce la piccola Giada, nata alle 4:21 dello scorso 28 marzo al Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
A partorire è stata mamma Alessia, giovane siciliana da anni ormai residente nella bergamasca insieme al marito Giuseppe, anche lui siciliano, che di lavoro fa l’operaio in una fabbrica. Alessia e Giuseppe erano soli le ultime settimane e al momento del parto. «Nei giorni precedenti alla nascita di Giada le contrazioni si facevano sempre più forti e mia mamma cercava di darmi forza e aiutarmi attraverso le videochiamate» – ha raccontato Alessia.
In ospedale il livello di sicurezza per le donne in gravidanza era altissimo. Il reparto di Ostetricia era isolato dal resto del nosocomio e, per accedervi, si attraversava un percorso che prevedeva diversi controlli. Ad accogliere le partorienti c’era l’equipe medica, con il sorriso nascosto dalle mascherine e con occhi di incoraggiamento e di fiducia. “Andrà tutto bene” gridava l’Italia da nord a sud.
«Andrà tutto bene», hanno detto in questi mesi i medici e gli infermieri coscienti della dura e difficile battaglia che hanno combattuto e continuano a combattere in prima linea in questo momento in cui la morte sembra prendere il sopravvento sulla vita.
Il Covid-19 aveva stravolto i piani di nonna Maria e nonna Patrizia, costrette a rimanere in una Sicilia isolata, con voli cancellati e risse ai traghetti per entrare. Erano appena trascorsi i giorni dell’esodo degli emigrati dal nord verso il sud. Quel 28 marzo i morti per coronavirus erano stati 889, e i contagiati poco sotto i quattro mila in un solo giorno, così il premier Giuseppe Conte firmò, quel giorno, il decreto che assegnava soldi ai comuni. E come al solito tornò la questione del meridione, che in quella crisi stava morendo affogato, e si arrivò perfino a denunciare il lavoro nero. A farlo fu Giuseppe Provenzano, Ministro per il Sud e la Coesione territoriale
Nel frattempo l’unico a stringere la mano di Alessia, al Papa Giovanni XXIII di Bergamo, era stato il marito Giuseppe, per l’occasione autorizzato a presenziare al parto e assistere alla nascita di una nuova vita. Poi Alessia rimase da sola in ospedale. «Le dottoresse, le infermiere e le signore delle pulizie sono state la mia famiglia. Mi hanno trattato come figlia». Con Giuseppe si sono riviste qualche giorno dopo, appena lei fu dimessa dall’ospedale. Da quel momento in poi prenderà il sopravvento la tecnologia, perché anche la felicità della nascita di una figlia può essere condivisa, così le due nonne si organizzano, anche oggi, con i loro telefonini e via di videochiamate, messaggi vocali, foto di Giada, che si veste e si sveste, che gioca in braccio a mamma e papà.
E così era stato per i parenti vicini, quelli che avevano lasciato il proprio paese d’origine, Riesi, e si erano trasferiti a Bergamo. Anche loro, oggi, condividono da lontano la felicità di Alessia e Giuseppe. Non si può fare altro, soprattutto a Bergamo, e soprattutto quel 28 marzo scorso; in quei giorni Bergamo era la Wuhan italiana.
La bergamasca ospita una nutrita comunità di emigrati siciliani. Riesi è arroccato al centro della Sicilia, a una quarantina di chilometri da Gela e Licata, roccaforti della grecità. Paese che fu di minatori, oggi sono di più i contadini e i pastori, ad inizio degli anni duemila iniziò a spopolarsi di giovani, man mano diventati professionisti, che si trasferirono al nord. Intere colonie a Torino, Genova e infine Bergamo. Il numero preciso non lo sappiamo, di certo, quella lombarda, è stata l’ultima volata al nord.
La generazione dei trentenni, dei vari comuni della provincia, di cui la gran parte torna solo per l’estate, hanno in tanti un ricordo che ha a che fare con la sanità: l’ospedale Santo Stefano di Mazzarino, dove molti di loro sono nati. Il reparto di maternità accoglieva le donne dei vari paesi, le coccolava, permetteva loro di coltivare i primi sogni di mamme. E i parenti che facilmente potevano riversare le proprie tenerezze, le loro regalie. Anche quei tempi sono stati spazzati. Lo sanno bene cinque ragazze di Mazzarino, altro comune della provincia di Caltanissetta, classificatasi ultima per vivibilità in Italia.
Marta, Angela, Lorena, Giada, Deianira sono prossime al parto. Per alcune di loro tutto è fissato per maggio. Ma i tempi sono stati spazzati via, come dicevamo, cancellati, e allora il reparto di maternità dell’ospedale Santo Stefano non esiste più. La “scusa” bella e buona fu quella dei tagli alla sanità, della rimodulazione, del nuovo piano sanitario. Tutte parole grosse che hanno lasciato traccia. Si è riaperta una ferita che era stata assopita da altre futili cose, e che oggi in tempo di pandemia, si riscopre forse utile e necessaria. Marta ha preso carta e penna e scritto una lettera al suo sindaco, con una domanda: «Perché non riaprire il punto nascite?».
Il suo di parto avverrà all’ospedale Umberto I di Enna, un’altra provincia. Ma fino ad allora niente visite dalla ginecologa, lei stessa ha consigliato di rimanere a casa. C’è solo un po’ di ansia, l’Umberto I è stato, ed è, in prima linea alla lotta al Covid-19, e ciò desta preoccupazione a tutte le altre ragazze. Anche perché dopo il parto bisognerà fare le visite di routine, sempre ad Enna.
Roberta, invece, ha partorito lo scorso 11 marzo all’ospedale Vittorio Emanuele di Gela. Da un pezzo di Sicilia a un altro. Anche lei di Mazzarino, ma la sua corsa è stata verso la città di Eschilo. Qui, e con l’Italia in lockdown, è nato il piccolo Nicolò. Poi il ricordo della solitudine di quei momenti, condividendo l’emozione più intima solo con sé stessi. Il pensiero ai propri cari e la voglia di tornare a casa. In tre la quarantena sarà davvero una novità.
Nel frattempo maggio è arrivato e così anche la cosiddetta “fase due” di questa pandemia. Per adesso il virus ha mollato un po’ la presa, ci si può spostare con più facilità, ma la prudenza rimane sempre. Così ancora dovranno aspettare Alessia, Giuseppe e la piccola Giada per tornare in Sicilia, e le giovani future mamme di Mazzarino, meno preoccupate ma che dovranno partorire di qua e di la, Covid-19 a parte, negli ospedali della provincia nissena. In bocca al lupo.